È difficile affrontare la storia di Gino Girolimoni e non pensare a un cappotto nero con una M di gesso sulla spalla: anni ’20, un pedofilo stupratore a piede libero per la città, una bomba a orologeria nel ventre di un sistema che si erge a difensore della sicurezza dei suoi cittadini. La bestia deve morire e la colpevolezza è opzionale.

Se Fritz Lang prese spunto dalle vicende di due assassini seriali che cosparsero con sangue la Repubblica di Weimar (e non soltanto dal caso concreto del “vampiro di Düsseldorf”), nel 1972 Damiano Damiani scrisse e diresse la storia del soprannominato “mostro di Roma”, il quale, tra il 1924 e il 1927, in una Capitale che stava cadendo nelle braccia del Ventennio, lasciò dietro di sé una scia di almeno cinque bambine morte e altrettante aggredite. Le prime due vittime provocarono un forte malessere sociale e migliaia di persone parteciparono ai funerali, chiedendo giustizia. Ma il peso della “grande” Storia minacciò di soffocare l’indignazione popolare.

Nino Manfredi in Girolimoni, il mostro di Roma. Dal trailer originale del film di Damiano Damiani, 1972.

“Siccome di voti ne abbiamo preso troppo pochi”, aveva detto il Domenico di Vittorio Gassman ne La marcia su Roma (Dino Risi, 1962), “adesso la sovranità ce la beccamo a modo nostro”. E, siccome il fascismo è molte cose, ma mai imprevedibile, il rapimento e assassinio di Giacomo Matteotti, dopo la sua denuncia dei brogli elettorali durante le elezioni del 6 aprile 1924 e altre indagini sulla corruzione della nascente dittatura, scosse le fondamenta del Paese e coprì la falla di sicurezza del “mostro di Roma”. Per disgrazia di Benito Mussolini, però, l’oblio fu temporale: “È questo l’ordine che c’ha promesso il fascismo? Se nun serve, perché ‘n se leva de mezzo?”.

Nei mesi seguenti, in pieno processo di fascistizzazione d’Italia, la scomparsa e assassinio di altre bambine nel cuore di Roma divenne il tarlo sulle travi di un regime che garantiva al “suo” popolo la libertà di dormire “con le porte aperte”. Mussolini -nel film, con i lineamenti di Luciano Catenacci e la voce di Nando Gazzolo– convocò in persona il capo della polizia: l’arresto doveva essere immediato. Il 9 maggio 1927 l’agenzia di stampa Stefani sbatté il mostro in prima pagina: il fotografo e mediatore Gino Girolimoni (un’altra immensa prova attoriale di Nino Manfredi). No, non era lui, ma quello era il minore dei problemi: “Loro volevano un colpevole e noi gliel’abbiamo dato”.

Nino Manfredi in Girolimoni, il mostro di Roma. Dal trailer originale del film di Damiano Damiani, 1972.

Damiani aveva cominciato gli iperpolitici anni ’70 con un dittico-bomba, Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971) e L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1972), che apre come un bisturi le inerzie tranquillanti del potere in collusione con la violenza. Con il magnifico Girolimoni, il mostro di Roma, il regista friulano volge lo sguardo al passato, ma tenendo ancora ben saldi i piedi nel presente, ed esattamente come stava facendo Giuliano Montaldo con la sua “trilogia del potere”, veicola attraverso un film storico la denuncia della situazione socio-politica in un’Italia che già nuotava nelle acque oscure degli “anni di piombo”.

Dopo la strage di Piazza Fontana, le indagini a tavolino avevano messo alla gogna altri due mostri: gli anarchici Pietro Valpreda (letteralmente soprannominato “il mostro” dalla stampa nostrana) e Giuseppe Pinelli, caduto accidentalmente dalla finestra della questura milanese di via Fatebenefratelli. Con un polso narrativo che concede poche soste allo spettatore e sulla base di quanto accaduto nella Roma fascista, la cinepresa di Damiani articola una straordinaria analisi della costruzione di un colpevole necessario, nella quale riecheggiano anche Sacco e Vanzetti, assassinati sulla sedia elettrica proprio nel 1927. Ironie amare della Storia.

Nino Manfredi in Girolimoni, il mostro di Roma. Dal trailer originale del film di Damiano Damiani, 1972.

Sulla testa di Girolimoni, uomo di liberi costumi, cinico, intelligente, elegante, benestante, non conforme, cadde un identikit costruito sul nulla: sulle parole palesemente false di un mucchio di cacciatori di taglie, sui silenzi forzati dei testimoni veri, messi a tacere per coprire le vergogne del regime, e sui silenzi spudorati di quelli che, pur di non sporcare il proprio nome, lasciarono un innocente in preda a una massa inferocita, dondolante tra giustizia e caccia alle streghe, che costrinse diverse persone al suicidio e alle quali rende omaggio Mario Carotenuto nei panni del vetturino Sterbini, sottomesso a un brutale linciaggio fisico e morale.

Il tutto, aizzato da due forze in grado di portare qualsiasi società sull’orlo del baratro: una polizia sotto pressione, assettata di promozione (in particolare, il brigadiere Apicella di Guido Leontini) e una stampa inginocchiata davanti al potere, che infuoca gli animi (“Bisogna sfruttare il momento e chiedere il ripristino della pena di morte / Sì, Eccellenza”) o insabbia i fatti a comando. Dopo un anno in prigione, Girolimoni va parlare con il giornalista incaricato del caso (Orso Maria Guerrini): “Questo è di oggi: dov’è la notizia che sono uscito innocente? Dovevate scrivere: GIROLIMONI INNOCENTE, GIROLIMONI RIABILITATO, ma grande così!”. Non la lesse mai.

L’Italia non deve saperlo, Girolimoni è cessato di esistere come uomo-notizia. È un’espressione nuova. Il fascismo attua la sua rivoluzione anche nel linguaggio: significa che da questo momento la stampa deve ignorare drasticamente Girolimoni e tutto quello che si riferisce al mostro. Se qualche altra bambina verrà uccisa, basterà non parlarne. Perché se è importante ciò che la stampa scrive, è molto più importante ciò che la stampa tace.

“Quanto vale la vita di un uomo in questo Paese?”, si chiedeva Rosalia Licata, il personaggio interpretato da Mariangela Melato ne La violenza: quinto potere, tratto dal dramma teatrale omonimo di Giuseppe Fava. Niente, quando si tratta di mettere in salvo il regime. Nel 1927, nel 1972 e oggi.


Girolimoni, il mostro di Roma

Un film di Damiano Damiani, 1972. Italia, De Laurentiis – International Manufacturing Company. 125′, colore.

Soggetto e sceneggiatura: Damiano Damiani, Enrico Ribulsi, Fulvio Gicca Palli. Interpreti: Eleonora Morana, Elio Zamuto, Gabriele Lavia, Gianni Musy, Guido Leontini, Luciano Catenacci, Mario Carotenuto, Nino Manfredi, Orso Maria Guerrini. Fotografia: Marcello Gatti. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Umberto Turco. Musiche: Riz Ortolani.

Quanto vale la vita di un uomo in questo Paese?

LA VIOLENZA: QUINTO POTERE