Il 26 settembre del 1943, nelle prime settimane dell’occupazione nazista di una Roma per nulla aperta, il presidente della Comunità israelitica della città, Ugo Foà, e il presidente delle Comunità israelitiche italiane, Dante Almansi, vennero convocati nell’ufficio di Herbert Kappler, comandante della Gestapo nella Capitale.

Dopo un inizio poco promettente –“Noi tedeschi vi consideriamo i peggiori nemici contro i quali stiamo combattendo”-, venne loro offerta un’apparente via di salvezza: la consegna di 50 chili d’oro entro 36 ore; altrimenti, 200 capifamiglia sarebbero stati presi in ostaggio e deportati in Germania. La raccolta andò a buon fine, ma non scongiurò il rastrellamento del ghetto, già in programma nella “soluzione finale della questione ebraica” e avvenuto meno di un mese dopo, all’alba del 16 ottobre.

Irag Anvar ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.
Filippo Scelzo ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.

Correva l’anno 1961 quando Carlo Lizzani scelse di raccontare questo episodio ne L’oro di Roma. Nemmeno il canto delle sirene del “miracolo economico” fu in grado di affogare una riapertura dei conti con la Storia recente del Paese che, eclissatasi in buona parte nel corso degli anni ’50, con l’avvento del nuovo decennio esplose sul grande schermo come un secondo tempo ideale del neorealismo, abbracciando -tra molte altre grandi tematiche quali la mafia e la corruzione politica- i tabù del fascismo e la Resistenza.

Non ci può stupire che Lizzani si rivelasse una piastrella perfetta nel nuovo mosaico di tensione morale e politica: dopo il suo esordio dietro la cinepresa in tempi non sospetti -vale a dire, ben dieci anni prima- con Achtung! Banditi! (1951), sulle vicende di un gruppo di partigiani genovesi in cerca disperata di armi, prima de L’oro di Roma aveva girato Il gobbo (1960), ispirato alla storia vera del partigiano reggino Giuseppe Albano, “il gobbo del Quarticciolo”, e poi avrebbe messo su pellicola Il processo di Verona (1963).

Nella stesura della sceneggiatura, Lizzani, Lucio Battistrada e Alberto Lecco presero spunto dalla prima memoria scritta della Shoah italiana, 16 ottobre 1943, di Giacomo Debenedetti (1944). Anche se il film si prende certe licenze artistiche -condensa in pochi giorni simbolici le tre settimane trascorse tra il ricatto e la retata del “sabato nero”-, è fedele agli eventi storici, concentrandosi nel processo di raccolta dell’oro, e coglie con freschezza e pathos lo spirito dell’opera letteraria, a cavallo tra la testimonianza diretta e il racconto.

Jean Sorel, Anna Maria Ferrero e Andrea Checchi ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.
Gérard Blain e Paola Borboni ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.

Per questa ragione, L’oro di Roma diventa un prezioso baluardo della memoria collettiva del Paese, da conservare con cura nello scrigno del nostro cinema sulla Seconda guerra mondiale e la Resistenza -quella che Pier Paolo Pasolini annoverava tra le poche “esperienze democratico-rivoluzionarie del popolo italiano”-, al livello (l’elenco si potrebbe allungare all’infinito) di Roma città aperta e Il generale Della Rovere (Roberto Rossellini, 1945 / 1959), Il terrorista (Gianfranco de Bosio, 1965) o I sette fratelli Cervi (Gianni Puccini, 1968).

E lo fa vagliando la “grande Storia” alla luce dei destini incrociati del professor Ortona (Andrea Checchi) e sua figlia, Giulia (Anna Maria Ferrero), studentessa di medicina che potrebbe sottrarsi alla deportazione, di Rosa (Paola Borboni), madre di cinque figli maschi, e suo fratello, Simone (Luigi Scavran), panettiere senza licenza, del presidente (Filippo Scelzo) e dei rabbini (Raniero De Cenzo, Umberto Raho). E, con loro, di altre migliaia di piccole, immense storie nel ventre di una Roma dalla bellezza dolente, sublimata dalla fotografia di Erico Menczer.

Lizzani non scivola né sul pietismo né sul sentimentalismo, grazie a un efficace polso narrativo e al cast straordinario che dà vita a una manciata di esseri troppo umani che si ritrovano a fare i conti con la Storia sulla propria pelle, in un momento -come si evince dalla documentazione disponibile, che il regista raccoglie con grande sensibilità- in cui la comunità ebraica si illuse fatalmente che a Roma non avrebbero avuto luogo gli eccessi avvenuti in altre zone d’Europa, sui quali, inoltre, avevano delle informazioni molto frammentarie.

Andrea Checchi ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.
Filippo Scelzo e Gérard Blain ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.

“Se li vengano a prendere gli ostaggi: dovrà venire almeno un tedesco per ogni ebreo. E il mio a casa non ci torna, questo ve lo giuro”. A parlare è Davide (Gérard Blain), che organizza la resistenza assieme a pochi compagni, sotto il paravento della sua attività come calzolaio, mentre cerca di scuotere le coscienze barcollanti tra il fatalismo e la fiducia in Kappler, ignare che avrebbero varcato la soglia dell’inferno qualsiasi fosse stato l’esito della raccolta: “La paura vi impedisce di ragionare: hanno giurato di distruggerci, è questa la parola che manterranno”.

Il personaggio è una felice novità rispetto al testo di Debenedetti, a metà strada tra un giovane Golem e il ciabattino delle leggende chassidiche raccolte da Martin Buber. Delicatezze intellettuali tutt’altro che sorprendenti: L’oro di Roma si avvalse della consulenza di Augusto Segre e presta un’attenzione squisita alla cultura ebraica (caratteristica non scontata nella cinematografia italiana sulla Shoah), dalle sequenze all’interno del Tempio maggiore al commovente momento in cui Ortona si mette in tasca la Mezuzah, inchiodata sullo stipite della porta.

Un gesto che sprigiona tutto il dolore di chi sa che non farà ritorno a casa: “Stai dicendo delle cose giustissime”, aveva detto a Davide, ma non era riuscito a reagire. Dopo l’agonica raccolta (“Non vorrà mica dare ai nostri nemici i suoi ricordi… Noi li daremo oro e basta”) e l’ancor più agonica doppia pesatura nella sede delle SS di via Tasso, i 50 chili e 300 grammi d’oro furono inviati a Berlino, all’ufficio centrale per la sicurezza del Reich. Nei giorni successivi, il ghetto venne saccheggiato e la mattina del 16 ottobre avvenne il rastrellamento.

L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.
L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.

Le campane degli orologi che avevano scandito le diverse sequenze del film non rintoccano più. Lizzani riproduce poche, ma strazianti scene della retata: molte di esse, vicoli e piazzette già vuote, avvolte in un silenzio spettrale dalla profonda potenza simbolica. 1259 esseri umani vennero radunati nei pressi del Portico di Ottavia e poi caricati a forza sui camion. Dopo il rilascio di quelli con sangue misto e degli stranieri, 1024 rastrellati imboccarono la strada verso i campi di sterminio. Solo 16 di loro sopravvissero.

Il regista rende anche omaggio a tutti i non ebrei che rischiarono la vita per nasconderli attraverso il fidanzato cattolico di Giulia, Massimo (Jean Sorel), nell’occhio dell’uragano di una famiglia spaccata tra ciò che è giusto e ciò che è sicuro, o contribuirono alla raccolta nella misura delle loro possibilità (“Batta pure [la Croce], piuttosto che finisca in mano ai tedeschi”). Così, L’oro di Roma fa dell’esperienza della comunità ebraica un messaggio universale che allerta del pericolo che un popolo corre se, sopraffatto dalla paura, ignora i segnali d’allarme dell’orrore.

Raggiungerò i compagni che sono già alla macchia, così non sarò un ebreo che si difende come ebreo, ma un italiano come tanti altri, che combatte contro i tedeschi.

Gli stessi tedeschi, lo stesso Kappler che avrebbe disegnato l’eccidio delle Fosse Ardeatine appena 5 mesi dopo. E in Dieci italiani per un tedesco. Via Rasella, girato da Filippo Ratti nel 1962, creando un imprescindibile dittico della memoria, le parole del partigiano Gilberto (Sergio Fantoni) riassumono la battaglia di Davide: l’appello alla responsabilità e al compromesso individuale e collettivo, superando le proprie paure e fragilità, nella lotta per una libertà che è quella di tutti e che, allora come oggi, non possiamo dare per scontata.

Questo ragazzo l’abbiamo condannato noi a morte con i nostri vent’anni di indifferenza al fascismo, con la nostra vigliaccheria. Avremmo potuto opporci con le nostre forze e allora sarebbe stato il momento di gridare “Viva l’Italia!”. Non l’abbiamo fatto, ci siamo ribellati troppo tardi per pretendere di avere le mani pulite.

Anna Maria Ferrero ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.
Gérard Blain ne L’oro di Roma. Carlo Lizzani, 1961.

L’oro di Roma

Un film di Carlo Lizzani, 1961. Italia – Francia, Sancro Film, CIRAC (Roma) – Contact Organisation (Paris). 93′, b/n.

Soggetto: liberamente tratto da 16 ottobre 1943, di Giacomo Dibenedetti. Sceneggiatura: Carlo Lizzani e Lucio Battistrada, con la collaborazione di Alberto Lecco. Consulente per i riti ebraici: Augusto Segre. Interpreti: Andrea Checchi, Anna Maria Ferrero, Enzo Petito, Filippo Scelzo, Gérard Blain, Irag Anvar, Jean Sorel, Luigi Casellato, Luigi Scavran, Paola Borboni, Peppino De Martino, Raniero De Cenzo, Tino Bianchi, Tiziano Cortini, Ugo D’Alessio, Umberto Raho. Fotografia: Erico Menczer. Montaggio: Franco Fraticelli. Scenografia: Flavio Mogherini. Musiche: Giovanni Fusco.

“Quest’ordine è già stato eseguito”:

VIA RASELLA: DIECI ITALIANI PER UN TEDESCO