—
Il medico e lo stregone (1957) appartiene alla popolata categoria dei “film stupendi incredibilmente sottovalutati all’epoca dell’uscita in sala”. Non è che Mario Monicelli fosse estraneo al fenomeno -un altro esempio: Risate di gioia (1960)-, ma Il medico e lo stregone grida vendetta con particolare forza perché ci troviamo di fronte a un gioiello spartiacque nella storia del nostro cinema, quello che segnò il passaggio tra il neorealismo rosa e la gloriosa stagione della commedia all’italiana. E voi, “avete fede? Avete anima pura? E che altro avete?”.
Pensate bene alla risposta, giacché ascolterete molte volte la domanda in questo incantevole scontro tra scienza e superstizione, vale a dire, tra il medico condotto Francesco Marchetti (Marcello Mastroianni) -arrivato a Pianetta, paesino dell’entroterra campano, per condurre una campagna di vaccinazione antitifica- e “l’eccellentissimo, il grande mago, il grande guaritore” Antonio Locoratolo (Vittorio De Sica), metà medico tradizionale, metà ciarlatano, nelle cui mani riposa(va)no i mali del corpo e le pene dell’anima dei paesani.


Il medico e lo stregone cavalca l’onda della commedia rurale che dominò la cinematografia italiana degli anni ’50: film ambientati nei piccoli paesi di provincia, alle prese con i cambiamenti post-bellici, ma bucolicamente sospesi nel tempo, lontani dal caos e dai ritmi sempre più serrati dei centri urbani. Un filone che vide coinvolti molti dei migliori nomi del mestiere, davanti e dietro la cinepresa, e che spesso fece saltare in aria il botteghino: basti ricordare i dieci milioni di spettatori di Pane, amore e fantasia nella stagione 1953-54.
Fu proprio il film di Luigi Comencini la fonte principale d’ispirazione per il regista, che ricreò in maniera magistrale i paesaggi umani tipici della corrente paesana e, per giunta, con alcuni dei protagonisti indiscussi di essa, da Umberto (Virgilio Riento), custode del comune e amico di don Antonio (“Bella coppietta che facete, tu e mi nonno!”, urla in un divertentissimo momento clou il piccolo Franco Di Trocchio, nei panni del nipote di Umberto), a donna Mafalda (Marisa Merlini), in attesa del fidanzato disperso in Russia e amore impossibile dello stregone.
Con loro, il segretario tuttofare di don Antonio, Scarrafone (il ruolo cinematografico più importante di un Carlo Taranto deliziosamente doppiato da Riccardo Cucciolla), l’assistente del dottore, Pasqua (Lorella De Luca) e la nipote del guaritore, Clamide (Gabriella Pallotta), che, fidanzata con un militare bergamasco (Giorgio Cerioni), rende omaggio estetico e caratteriale alla “Bersagliera” di Gina Lollobrigida e, ancor prima, alla Carmela di Maria Fiore in Due soldi di speranza (Renato Castellani, 1951), iniziatore del neorealismo rosa alla campagnola.


Rispettando, dunque, questa squisita ambientazione canonica, Mario Monicelli fece un aggiornamento delle tematiche, dando il colpo di timone che indirizzò definitivamente la nostra cinematografia verso la commedia all’italiana, nata un anno dopo grazie alla sua geniale armata di “soliti ignoti”. Un colpo di timone che fu anche una sorta di ritorno alle origini perché Il medico e lo stregone è pregno della critica sociale che, molto presente nel pioniere Due soldi di speranza, si diluì sempre di più nel filone, senza svanire del tutto.
Il regista ci porta nel cuore agreste di un’Italia che cominciava a inebriarsi di modernizzazione. Molte delle riprese ebbero luogo in diverse località della Tuscia, terra chiamata a comparire più volte nelle sue opere: Valentano, Grotte Santo Stefano e San Martino al Cimino (“che conoscevo bene perché mi ci avevano portato in vacanza quando ero bambino”) compongono, assieme a Civita di Bagnoregio e Albano di Lucania, il mosaico di Pianetta, “tagliato fuori dal mondo: l’unico fatto importante risale al 1899, quando passò di qui il re Umberto I”.
E quel paesino arroccato su una collina -fuori dal tempo e, al tempo stesso, “Italia due volte”, come diceva Pietro Germi della Sicilia- esperimenta un’eversiva botta di modernità: l’arrivo del dottore (osservato come una curiosità entomologica: “Non sei un confinato? E allora che vieni a fare a Pianetta?”) scuote un alveare di amori e amicizie, provocando un susseguirsi di scene esilaranti, brulicanti di tenerezza. Una sceneggiatura brillante (Monicelli, Age e Scarpelli, Ennio De Concini) nelle mani di un cast -scusate il luogo comune- in autentico stato di grazia.


Gigione, travolgente, affascinante. De Sica giganteggia in un ruolo cucito su misura per la sua gestualità e vena affabulatoria, nel quale riecheggiano alcune delle sue arringhe memorabili, dalla “maggiorata fisica” al generale Della Rovere. Letteralmente irresistibile, Monicelli gli regalerà anche un riscatto morale perché, nonostante la dose massiccia di ciarlataneria e le immancabili 1000 lire per cliente / paziente, ha coperto una secolare mancanza di supporto sanitario e psicologico nel paese, anche se, ehm, camuffando i rimedi “con adeguata veste occulta”.
– [La paziente presenta un’anemia da mancanza di ferro] Occhio, malocchio, ho letto dentro l’occhio: infamità e invidia. Vi do l’infallibile rimedio: sangue di vite, sangue di maschio equino. Chiaro?
– Mica tanto.
– Vino rosso, bistecca di cavallo cruda e ben tritata, un torlo d’uovo…
– Polpettone!
– Ehm, sì, ma INOLTRE essa porterà al collo il benefico scapolare…
Dalle fantomatiche sedute spiritiche per localizzare Corrado, con donna Mafalda e lo stregone in trance mistica, alla malattia messa in scena da Umberto per screditare il dottore (“Mi fa male un po’ dappertutto, dotto’ / AVESSE UN SINTOMO CHE SI ACCORDA CON L’ALTRO!”), tutta la squadra funziona con “la precisione di un orologio” che Buster Keaton esigeva alla commedia. Un film che è esempio prezioso di maestria interpretativa e scrittura curata fino all’ultimo dettaglio. Difatti, una delle scene più straordinarie è la riapparizione del reduce.
Si tratta di un pezzo di bravura della coppia Merlini / Alberto Sordi, che nel giro di 6 minuti segnano il film con una giostra di patetismo, dolore e ironia (“Sti beduini col palandrano, tutti neri, ahò! / Ma non eri in Russia? / Eh? E che ne so se erano russi”). Monicelli fotografa un momento storico nel quale i dispersi erano una realtà nell’immaginario socioculturale, messa su pellicola sia in chiave di commedia -come Letto a tre piazze (Steno, 1960)-, sia in chiave drammatica, da Italiani, brava gente (Giuseppe De Santis, 964) a I girasoli (De Sica, 1970).


E non solo: l’analfabetismo assoluto in Italia arrivava al 13% e le malattie infettive -uno degli indici più sensibili delle condizioni igieniche, che avevano esperimentato un aumento durante e dopo la Seconda guerra mondiale- campeggiavano ancora tra le prime cause di mortalità. “Non sanno nemmeno cosa sia un medico condotto: per loro, voi siete un barbiere, dottore”. Sotto la veste di commedia graziosa e leggera, Il medico e lo stregone diviene di fatto una denuncia graffiante dello stato di isolamento e abbandono in cui versavano ampie fette della penisola.
Un atto di accusa che ha attraversato la cinematografia italiana, da In nome della legge (Germi, 1949) a Il demonio (Brunello Rondi, 1963), da Cristo si è fermato a Eboli (Francesco Rosi, 1979) al recente Aspromonte. La terra degli ultimi (Mimmo Calopresti, 2019). Posti fuori dalla Storia, dove lottano modernità e arretratezza, razionalità e magia. Polso morale, rispetto profondo e adorabile umanità per evidenziare i buchi legali e sociali che, lasciati aperti da uno Stato incapace e / o criminale, vengono riempiti dai soprusi, dalla mafia e dalla superstizione.
Un gioiello, sì: l’ennesimo targato Monicelli.
Il medico e lo stregone
Un film di Mario Monicelli, 1957. Italia – Francia, Royal Film (Roma) – Francinex (Parigi). 100′, colore.
Soggetto: Agenore Incroci, Furio Scarpelli. Sceneggiatura: Agenore Incroci, Ennio De Concini, Furio Scarpelli, Luigi Emmanuele, Mario Monicelli. Interpreti: Alberto Sordi, Carlo Taranto, Franco Di Trocchio, Gabriella Pallotta, Gino Buzzanca, Giorgio Cerioni, Ilaria Occhini, Lorella De Luca, Marcello Mastroianni, Marisa Merlini, Riccardo Garrone, Virgilio Riento, Vittorio De Sica. Fotografia: Luciano Trasatti. Montaggio: Otello Colangeli, Ruggero Mastroianni. Scenografia: Piero Gherardi. Musiche: Nino Rota.
“Mio padre non è quello che si dice un bell’uomo…”: