Pietro Germi e Saro Urzì ne Il ferroviere, 1956.
Alcuni degli episodi più straordinari del nostro cinema si sono macchiati del peccato originale di aver deluso le aspettative della “critica specializzata”, spesso più attenta al suo tornaconto ideologico che ad analizzare le qualità del prodotto in questione. Il ferroviere è uno degli anelli di diamante di questa fitta catena di scontri e incomprensioni, un film “per gente all’antica”, al quale l’onnipotente (e perennemente insoddisfatta) critica marxista non seppe o non volle rendere giustizia.

Dopo aver superato i dubbi del produttore Carlo Ponti, Pietro Germi girò e interpretò Il ferroviere nel 1956, reinventando in maniera brillante un neorealismo che era ormai agli sgoccioli. Il regista veneto confermò la sua condizione di colonna portante del movimento che stava documentando con la cinepresa la nascita dell’italiano del dopoguerra: uomini e donne ben diversi da quelli ambiti dal fascismo, privi di qualsiasi mappa sociale, alla ricerca disperata di nuove forme di comunicazione interpersonale. L’Andrea Marcocci di Germi è uno di quegli uomini che dovettero salire sulle macerie per riscoprire il mondo e loro stessi.

Edoardo Nevola ne Il ferroviere. Pietro Germi, 1956.

Le macerie personali, con due figli (Sylva Koscina, Renato Speziali) che non vogliono più sedersi all’interno della gabbia esistenziale paterna e una moglie (Luisa Della Noce) “angelo del focolare” che sopporta l’insopportabile pur di tenere in piedi una facciata familiare in frantumi. E le macerie sociali: la frivolezza con cui è costretto a ripartire dopo il suicidio di un giovane sui binari, porta il ferroviere sull’orlo di un altro incidente fatale, evitato grazie all’intervento provvidenziale del sempre fedele amico Gigi (Saro Urzì). Da allora, Andrea comincia una discesa negli inferi, abbandonato dai sindacati, declassato e accusato di crumiraggio.

I tempi registici e intellettuali di Germi si fondono con quelli dell’intero Paese attraverso lo sguardo del beniamino della famiglia, Sandrino (Edoardo Nevola), che come il Bruno (Enzo Stajola) di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), personifica il “miracolo del dopoguerra”, immaginando assieme allo spettatore nuovi rapporti individuali e collettivi. Le conversazioni tra Andrea e Sandrino, un prodigio di naturalezza e intensità, sono conversazioni tra la vecchia e la nuova Italia, una delle più belle rappresentazioni della perdita neorealistica delle frontiere dell’io, del raccontare in nome di una società che ha bisogno di un rinnovamento profondo dei suoi codici di condotta.

Pietro Germi e Luisa Della Noce ne Il ferroviere, 1956.

Il ferroviere, un adattamento del racconto omonimo di Alfredo Giannetti, è permeato dalle inquietudini socialdemocratiche del regista, dalle urgenze storiche e morali che dovevano far sì che i problemi individuali diventassero collettivi, senza aggrapparsi, però, alle soluzioni “deamicisiane” di cui parlavano gli addetti ai lavori legati al PCI. Germi intuì con una lucidità e una sincerità senza paragoni la trasformazione sociale del proletariato italiano e perciò venne accusato di aver fatto una rappresentazione poco veritiera dei lavoratori, le stesse deliranti critiche subite da I compagni (Mario Monicelli, 1963) e La classe operaia va in Paradiso (Elio Petri , 1971).

“Al di là della sua grazia sublime, di una rara potenza poetica”, ricordava Ermanno Olmi, “una ragione mi faceva amarlo in modo speciale: riguardava la mia vita e quella di mio padre, che aveva attraversato le stesse vicende del suo ferroviere”. Perché è la storia senza idealizzazioni di un gruppo di esseri umani nell’occhio di un uragano sociale che non risparmia niente e nessuno, dei figli di un Paese costretto a reinventare tutto, compreso se stesso. Perché quella “gente all’antica” eravamo noi. “Vi manca l’istruzione”, si sente dire Cornacchia Nell’anno del Signore (Luigi Magni, 1969) / “E a voi ve manca il popolo”.

Lo stesso del quale e al quale parla (meravigliosamente) Germi.


Il ferroviere

Un film di Pietro Germi, 1956. Italia, Excelsa Film. 118′, b/n.

Soggetto: tratto dal racconto omonimo di Alfredo Giannetti. Sceneggiatura: Alfredo Giannetti, Luciano Vincenzoni, Pietro Germi. Interpreti: Carlo Giuffrè, Edoardo Nevola, Luisa Della Noce, Pietro Germi, Renato Speziali, Saro Urzì, Sylva Koscina. Fotografia: Leonida Barboni. Montaggio: Dolores Tamburini. Scenografia: Carlo Egidi. Musiche: Carlo Rustichelli.

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