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All’estero viene considerato uno dei più bei film fatti dopo la guerra, un classico, e ancora mi capita di sentirmi dire “The Organizer” o “Les camarades”, tanto è straordinario!
E come si fa a dargli torto? Correva l’anno 1963 quando Marcello Mastroianni si lasciò alle spalle gli uragani felliniani e cambiò registro per diventare l’anima de I compagni, uno dei gioielli -anche se con lui c’è sempre, eccome, l’imbarazzo della scelta- di Mario Monicelli. Dopo il decennio più (apparentemente) spensierato della “commedia all’italiana”, la magia delle storie collettive del maestro toscano tornò su pellicola per raccontare la nascita del sindacalismo patrio. Questa volta, “i soliti ignoti” sono gli operai di una fabbrica tessile nella Torino di fine Ottocento, immersi in una graduale presa di coscienza sulla necessità di “fare qualche bordello, come gli inglesi” per ottenere dei miglioramenti nelle massacranti condizioni di lavoro.

Dopo l’ennesimo incidente, il gruppo si raduna nell’atrio dell’ospedale e, mentre aspetta qualche notizia sul compagno mutilato, la provocazione di Raoul (Renato Salvatori, doppiato da Walter Chiari) –“Sempre collette, solamente collette sappiamo fare!”– apre un acceso dibattito che, all’improvviso, dà ai lavoratori la spinta di cui avevano bisogno.
Te lo dico io che bestie siamo: quattordici ore di macchine e mezz’ora per mangiare; poi, quando capita una disgrazia, mica andiamo dal padrone a cercare di avere un orario più cristiano. No, non corriamo mica rischi, noi… Noi facciamo le collette! Pecoroni, ecco cosa siamo, pecoroni!
Cominciano a fare dei piccoli gesti dimostrativi, come suonare la sirena di fine turno in anticipo di un’ora, con i quali ottengono concessioni ugualmente piccole: l’umiliante perdono a Pautasso (Folco Lulli), l’autore materiale, la sospensione delle multe (“Beati voi che ve ne state tutto il giorno alle caldaie col freddo boia che tira fuori. E dire che ve ne volevate andare un’ora prima, birichini!”). E proprio quando il comitato si riunisce di nuovo, questa volta nel seminterrato che serve da scuola notturna, per decidere sul da farsi e recuperare la solidarietà perduta, il professor Giuseppe Senigaglia (Mastroianni) spunta dal nulla.
Perennemente affamato, perennemente appassionato, con gli occhiali quasi sempre fuori posto, è un “agitatore socialista” che mette nero su bianco la verità: solo uno sciopero a oltranza comporterà cambiamenti veri, l’inizio di una lotta piena di sacrifici per tutti. Perché, dietro le rivendicazioni dei compagni di Monicelli, alitano i disordini milanesi che sfociarono nell’omicidio di Umberto I –“Morte al re”, scrive uno dei lavoratori, quando il maestro Di Meo (François Périer) gli chiede “un bel pensierino”– e anche gli scontri avvenuti pochi mesi prima dell’uscita del film, durante i quali alcuni dimostranti furono uccisi dalle forze dell’ordine in diverse città italiane, compresa Genova, dalla quale è in fuga Senigaglia, ricercato per aggressione a un pubblico ufficiale.

Quando il regista iniziò a pensare a I compagni, lo fece affascinato dall’idea di “essere i primi a raccontare una storia di operai e di scioperi, argomento tabù in Italia”. Mancava ancora una manciata di anni al “cinema di denuncia”, che avrebbe ripreso i temi del quinquennio 1959-1964 in chiave contemporanea: in testa, La classe operaia va in Paradiso, che riscosse un successo strepitoso riproponendo lo schema de I compagni, ma in uno scenario molto diverso. Se il film di Elio Petri uscì in sala all’alba degli iperpolitici anni 70, quello di Monicelli lo fece nell’autunno del 1963: “Nel nostro Paese, la società era a destra e il cinema, a sinistra; lo affrontammo come una sfida e, come tutte le sfide, mettevamo nel conto che potesse andare male”.
E andò male. La pellicola fece calare il sipario sull’avventura iniziata con La grande guerra e Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica: quando venne presentata al XXXV Congresso socialista a Roma, le simpatie socialcomuniste, colonne portanti del filone cinematografico storico-politico, avevano perso molta forza, dal momento che i suoi dirigenti erano finalmente approdati alle isole governative. E, se mancava qualcosa, nel 1964 esplose il “western all’italiana” con Per un pugno di dollari. Nemo propheta in patria, mentre all’estero piovevano i riconoscimenti. “Hanno pensato che avessi fatto un film di propaganda”. E no, non lo è. Per Mastroianni, sembrava “un documento girato proprio a quell’epoca”, e non era un modo di dire.

Ossessione, rumore, calore, “il vivere male in questa atmosfera per quattordici ore. Volevo stancare anche gli spettatori”, confessava il regista, che eseguì un lavoro straordinario di documentazione. Le riprese ebbero luogo a Cuneo, Fossano e Zagabria; gli interni, “in una fabbrica tessile semi-artigianale che trovammo vicino a Torino, ancora con un bellissimo macchinario antico”. Inoltre, le storie dei lavoratori gettano le loro radici negli scartafacci dell’epoca, “dove le donne erano molto presenti, lavoravano e sapevano bene come stavano le cose”, perciò I compagni dipinge degli indimenticabili personaggi femminili, dalla inarrestabile Adele (Gabriella Giorgelli) a Niobe (Annie Girardot), che preferisce “fare la vita”, anziché vedersi schiavizzata dal sistema industriale.
E la storia venne fuori “come commedia perché io vedo così il mondo: la battaglia sindacale poteva essere rappresentata anche con toni divertenti, perché in ogni momento della vita di ogni comunità umana ci sono amori, scherzi, divertimenti”. Una lungimiranza che la critica di sinistra non seppe (o non volle) capire. Monicelli disprezza i clichés e presenta un gruppo umano che lavora, lotta, ama, un affresco geniale di esseri umani, senza ovviare le contraddizioni, i dubbi, gli egoismi che permeano i diversi livelli di solidarietà interclassistica: dal “permesso” al disperato Salvatore, appena giunto in città, per andare in fabbrica durante lo sciopero, allo scontro con i crumiri o la scena in cui i tranvieri fanno finta di non vedere i lavoratori mentre essi rubano il carbone.

Fotogramma dopo fotogramma, si percepisce la sincera identificazione con la causa dei lavoratori: il regista amava particolarmente questo film, preferendolo a La Grande guerra, forse perché lo spirito storico-corale fluisce ne I compagni con una maestria e una naturalezza irraggiungibili. E forse anche per questo era una delle opere predilette da Mastroianni. Monicelli, Age e Scarpelli scrissero il personaggio pensando a lui e fecero centro alla grande; Marcello è superbo nei panni di questo idealista “stravagante, confuso, romantico” che ha “tradito” la sua classe sociale, condannandosi a una vita nella clandestinità pur di poter proclamare il suo vangelo di giustizia sociale: “Forse hanno ragione loro e siamo pazzi”.
Perché la chiave di volta de I compagni è l’educazione, la necessità di essere consapevoli dei propri diritti e di avere gli strumenti per esercitarli (“Dovete mettervi in testa che, su queste rozze panche, acquistate il diritto di far sentire la vostra voce al Parlamento”). Senigaglia e Di Meo finiscono nel mirino dei padroni perché, ognuno a modo suo, sono ugualmente pericolosi: da una parte, lo scalcagnato intellettuale che parla di rivoluzione, coscienza di classe, lotta proletaria; dall’altra, il maestro che non solo cerca di liberare i lavoratori attraverso la cultura, ma che fa anche “opere di sovvertimento sociale”, insegnando ai bambini “atti di solidarietà, gesti civili ed educativi”, invece dei testi che difendono “che è giusto che al mondo ci siano servi e tiranni”.

Perciò la scena più amata da Monicelli (“È la più significativa del film; nessuno se la ricorda, ma me la ricordo io”) vede Omero (Franco Ciolli) -poco più di un ragazzo, analfabeta- su tutte le furie, quando viene a conoscenza dello scarso profitto che trae dalla scuola suo fratello: “Voglio andare in fabbrica, come te! / Piuttosto di farti fare come me, io t’ammazzo!”. Ma sarà lui a lasciare la vita sul terreno: giunte entrambe le parti allo stremo, l’esercito carica contro gli operai che tentano di occupare la fabbrica. Con due martiri nelle loro schiere, Raoul nella clandestinità, Di Meo trasferito a Cassino, Senigaglia arrestato e il fratellino di Omero prendendo il suo posto in fabbrica, i lavoratori hanno perso la guerra?
No, soltanto una battaglia; anzi, forse nemmeno quello, poiché, finalmente forti della reciproca solidarietà, sono riusciti a “spezzare il cerchio del silenzio”, sopravvivendo ai metodi canaglieschi dei padroni. Monicelli lascia aperto lo spiraglio della speranza nella bellissima scena finale: Adele informa Raoul che il professore è ancora dentro, “ma stiamo cercando di portarlo candidato alle elezioni e ti manda questo, è l’indirizzo di un suo amico di Lugano”. Il giovane, che aveva nutrito molti dubbi su Senigaglia durante i primi giorni di sciopero, sorride: “Ma quello lì anche in galera continua a occuparsi degli altri, non molla proprio mai”. Mai, perché, anche se il prezzo da pagare sarà alto, dopo tutto quello che è successo, niente sarà come prima.
I compagni
Un film di Mario Monicelli, 1963. Italia – Francia – Jugoslavia, Lux Film – Vides Cinematografica – Méditerranée Cinéma Production, Avala Film. 128′, b/n.
Soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Mario Monicelli. Interpreti: Annie Girardot, Bernard Blier, Folco Lulli, Franco Ciolli, François Périer, Gabriella Giorgelli, Giampiero Albertini, Marcello Mastroianni, Mario Pisu, Renato Salvatori, Vittorio Sanipoli. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Scenografia: Mario Garbuglia. Musiche: Carlo Rustichelli.
Dichiarazioni di Mario Monicelli tratte da: Riprese del film di Monicelli “I compagni” (Istituto Luce Cinecittà, 22-02-1963). Notiziario dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema, 68, 2001. 1 su mille. Mario Monicelli (RAI, 06-10-2009). Intervista a Mario Monicelli, 2006 (“The Organizer” Special Edition, The Criterion Collection, 2012).
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