—
È l’anno 1954 e Pasquale Pinto offre a Francesco Ingrassia un posto di comico vacante nella sua compagnia di avanspettacolo, appena sbarcata in Sicilia. Il 32enne dagli occhi azzurri e, anche se ancora non lo sa, i lineamenti felliniani, alle prese con il mestiere di calzolaio, ha una lunga gavetta teatrale alle spalle, dal Trio Sgambetta, anima del Bar degli artisti di Palermo, alle riviste di Gino Bramieri a Torino. La risposta è affermativa, ma vuole al suo fianco un altro allievo della miserabile (e gloriosa) scuola del teatro di strada, cresciuto, come lui, tra il Capo e la Vucciria: Francesco Benenato.
Madonnaro e garzone di pasticceria, prima; strisciante, clown, acrobata, dopo. Un artista girovago che “da del tu alla fame” e ha in Totò, Hitler e Mussolini i suoi pezzi forti, combinati con le serenate a pagamento nel cuore di una città che cerca di ricucire le ferite della guerra. Il capocomico ha poca voglia di scritturare un saltimbanco, ma, rassicurato dalla presenza di Ingrassia, accetta. Per la prima volta insieme su un palco, quello del teatro Costa di Castelvetrano, avviene il cambio di nomi: Francesco “Franco” Ingrassia diventa Ciccio; Francesco Benenato, in arte “Ciccio Ferraù”, diventa Franco.
E già il primo numero sarà uno dei cavalli di battaglia della coppia: Ciccio, circospetto, aristocratico, concentratissimo, (quasi) imperturbabile, cerca di cantare a squarciagola Core ‘ngrato (Catarì, Catarì…), mentre viene disturbato in tutti i modi possibili da un Franco tenero, stralunato, incantevole, imprevedibile, che ha anche l’opportunità di sfruttare la sua eccezionale condizione fisica. Un meccanismo comico inedito e irresistibile, che perfezionano negli anni successivi in tournée estenuanti per tutta la geografia italiana, arrivando persino in alcune città francesi, dove la loro arte mimica strega il pubblico.

Il primo e doppio punto di svolta arriva nel 1959, quando Mascotte assegna il suo premio annuale alla coppia, che entra nell’orbita di Domenico Modugno e Mario Mattòli. Il risultato è un felice esordio cinematografico in Appuntamento a Ischia (1960) e la consacrazione definitiva in Rinaldo in campo, commedia musicale targata Garinei e Giovannini, che sbanca il botteghino della stagione teatrale 1961-62 al Sistina di Roma. Un successo clamoroso che si traduce nella nascita di Franco e Ciccio anche come coppia protagonista sul grande schermo, a partire dall’incontro con Lucio Fulci ne I due della legione (1961).
“Quando storicizzeranno i miei film”, ricordava sempre il regista romano, “ci saranno prima di tutto quelli di Franchi e Ingrassia”. Da allora e per più di trent’anni scrivono una delle stagioni più belle del cinema e la televisione italiane. Due palermitani geniali, ognuno con la sua individualità, che da soli capovolgono l’immaginario collettivo e disegnano la geografia sentimentale di un intero Paese. E lo fanno portando alla ribalta un’arte basata sul contatto immediato con il pubblico, che affonda le sue radici nella vastasata e nella posteggia, che beve dal canovaccio della commedia dell’arte e dal surrealismo.
Franco e Ciccio mettono in moto un gioco di alterazioni fisiche e linguistiche, attraverso due creature, a loro insaputa, assolutamente rivoluzionarie nella loro dotta ignoranza, ribelli, volenti o nolenti, ai margini di una società che fraintendono e li fraintende. Sono la continuazione in carne e ossa del teatro dei pupi, rivestiti di abiti di mafiosi o deputati, di funzionari ministeriali o preti, di maghi del pallone o agenti segretissimi, nel miglior specchio sociopolitico del Paese. “C’è più Italia in un film di Franchi e Ingrassia che in tutta la commedia all’italiana”. Non saremo noi a dare torto a Federico Fellini.

Il pubblico li adora e -sembra un fatale connubio- la critica li disprezza. Franco e Ciccio pagano i conti della sempiterna incomprensione del genere parodistico -conosciuto in Italia grazie a mostri sacri come Totò, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello o Walter Chiari, ma mai in termini così dissacranti come quelli dei siciliani-, la stagione dell’impegno politico, l’esplosione della Nouvelle vague e, in generale, lo pseudo-intellettualismo di una grossa fetta della critica che, ancora una volta parole profetiche di Fulci, “deve vedere mondine e partigiani per apprezzare un film” e calca le tinte negli inevitabili anelli deboli di una catena di 165 pellicole.
Di fronte alla mediocrità di chi aveva stroncato Antonio De Curtis, soprassediamo. Perché solo i veri geni si riconoscono tra loro. Di Franco e Ciccio disse Buster Keaton che avevano “dei tempi comici semplicemente perfetti” e per un altro siciliano imprescindibile, Andrea Camilleri, vederli significava vedere “un gioco di classe assoluta”. Perciò ci chiediamo, con una certa amarezza, cosa sarebbe successo se a dare vita al Gatto e la Volpe nell’irraggiungibile Pinocchio di Luigi Comencini (1972) o a Don Lollò e Zì Dima nel Kaos dei fratelli Taviani (1984) fossero stati altri attori.
Anzi, la risposta la sappiamo: verrebbero inesorabilmente citati tra gli episodi più belli del cinema italiano. E non ci sarebbe niente da obiettare: sembra che Collodi e Pirandello abbiano modellato i personaggi su di loro. Quattro ruoli, due coppie, un unicum artistico tellurico, perfetto, che fa venire a galla un altro rimpianto: quello di aver conosciuto fino in fondo il Franchi drammatico, come successe con il meraviglioso Ingrassia solista. “Sono maschere antiche che provengono dal teatro greco, quello delle atellane e dei fescennini. Se dovessi dirigerli, sceglierei La pace di Aristofane”. L’autore? Un tale Dario Fo.
Il miracolo di riscoprire Luigi Pirandello su pellicola: