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Ne Il buono, il brutto, il cattivo, il Tuco Ramírez di Eli Wallach “entra in società”, per usare le parole di Balzac, “come una palla di cannone”, attraversando una finestra (chiusa) e fuggendo all’impazzata nel deserto. Non cercate, però, degli echi biblici nella scena perché questo “Elia” scappa dopo aver ammazzato, o quasi, tre cacciatori di taglie. E con una coscia di pollo in mano.
Da allora e per tutti i 178 minuti di durata di questa meraviglia targata Sergio Leone -nonché, indefettibilmente, a ogni visione del film-, lo spettatore rimane stregato dal bandito messicano, che continuerà a imparare la differenza tra porte e finestre con il susseguirsi degli eventi. Poche novità quando si ha a che fare con una leggenda: se in un film c’è Eli, Eli sarà ciò che ricorderai del film. Questa è stata una costante nella sua carriera, non soltanto sul grande schermo -basti fare due esempi: i ruoli ne I magnifici sette (John Sturges, 1960) e Gli spostati (John Huston, 1961)-, ma anche, eccome, sui palcoscenici di Broadway.

Tuco Benedicto Pacífico Juan María Ramírez è il sole cinematograficamente perfetto intorno al quale gira Il buono, il brutto, il cattivo. Wallach concentra in lui il meglio del suo sconfinato talento interpretativo e lo mette al servizio del capolavoro di chiusura della “trilogia del dollaro” con assoluta generosità, ribadendo la famosa frase di Gian Maria Volontè: “Tu pensa a dove vuoi mettere la cinepresa, al personaggio ci penso io”. Difatti, fu il milanese a frullare in testa per primo al regista, come la continuazione naturale degli indimenticabili Ramón Rojo (Per un pugno di dollari, 1964) e Indio (Per qualche dollaro in più, 1965).
Ma “non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico e io avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico”. Così Eli attraversò l’Atlantico e, a cavallo tra Spagna e Italia, scucì tutti gli stereotipi del genere. Leone seppe lasciargli la libertà d’azione necessaria durante le riprese, ben consapevole della doppia condizione di attore-creatore di Wallach; non a caso, a convincere il trasteverino a prenderlo fu un gesto in apparenza banale -una pernacchia- de La conquista del West (1962): “Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui”.

Aveva ragione Eduardo: ‘o pernacchio è un’arte. Questa cura artigianale dei dettagli segnò sempre il lavoro artistico di Eli, che scelse persino l’abbigliamento di Tuco. Un profilo fatto su misura per il progetto di Leone: “Rimasi incantato dalla volontà di Sergio di far sembrare il film un dipinto di Vermeer”. Pioniere dell’Actor’s Studio e instancabile ricercatore dello spirito del personaggio, difese il “metodo” contro “gli attori tecnicamente complessati, emozionalmente vuoti”. “Spirito”, appunto: Tuco è lo spiritello di una vecchia Féerie, il diavoletto che scappa dal cappio esattamente come scapperebbe da una delle (molte) cineprese bruciate da Georges Méliès.
Perciò è capace di dilatare all’infinito l’essenza del film: la dissacrazione del “buono” e del “cattivo” in un western ambientato nella Guerra di secessione americana. “Da sempre ho pensato che [questi termini] non esistessero in senso assoluto e totalizzante”, ricordava il regista, che allarga la breccia aperta da Buster Keaton in Come vinsi la guerra (1926) e, scegliendo di mostrare il volto più brutale del grande tabù della storia degli Stati Uniti (è d’obbligo ricordare il capitano nordista alcolizzato interpretato da uno straziante Aldo Giuffrè), lo fa saltare in aria per veicolare una denuncia universale dell’assurdo bellico, “dell’imbecillità umana”.

40 anni e circa 9.000 chilometri (quelli che separano l’Oregon dalla provincia di Burgos, nel cuore della Spagna) dopo, Tuco diventa la versione sonora -anzi, logorroica-, colorata (di nuovo, sia benedetta la fotografia “vermeeriana” di Tonino Delli Colli), violenta e sporca di Johnnie Gray, riuscendo a mandare in frantumi il mito del West con una naturalezza disarmante, mentre gioca con le bolle di sapone, spara parolacce a raffica in un improbabile spagnolo (oltre al magnifico doppiaggio di Carlo Romano, non perdetevi la versione originale del film) o corre spaesato -metà fuorilegge, metà bambino- tra le tombe del cimitero di Sad Hill.
Nella straordinaria tavolozza della natura umana che forma il triumvirato protagonista, se Sentenza (Lee Van Cleef) è “un professionista nel più banale senso del termine”, nelle parole di Leone, “un robot”, e il Biondo (Clint Eastwood) nuota in acque morali molto più ambigue, Tuco cade definitivamente dalla parte dell’umanità. Come piaceva ricordare a Wallach, “cerco le ragioni dietro le azioni di un villano (…) perché anche lui dev’essere interpretato dal punto di vista delle sue emozioni”. E per questo lo riempie di veracità e carnalità, in un incrocio geniale tra Arlecchino e il Lazarillo de Tormes, picaro, vagabondo e bastardo al tempo stesso.

Eroe tragico e contraddittorio, l’unico dei tre ad avere un passato (“Ho una scena stupenda con mio fratello, ma io parlavo in inglese e lui [Luigi Pistilli] in italiano: la sensazione era stranissima!”), è un mucchio trascinante di verve, ironia e tenerezza, capace di toccare le corde profonde del cuore. Non è mai fermo, né fisicamente né moralmente: si sposta in continuazione tra il tradimento e la lealtà, tra la paura e la spavalderia. Con l’istinto dell’animale ferito, cerca un senso di fratellanza perduta che progetta nell’irresistibile (ecco la parola d’ordine con Wallach) rapporto di amore-odio con il Biondo, come don Chisciotte e Sancio Panza allo stato brado.
Eterno perdente, mai completamente sconfitto, quello di Tuco non è il fascino del male, ma il fascino di un’umanità che cambiò per sempre la storia del cinema. “Nel mio mondo, sono gli anarchici i personaggi più veri”, diceva Leone, perciò Il buono, il brutto, il cattivo si apre e si chiude con Wallach: dopo essere sopravvissuto al “triello” con una pistola scarica e aver rischiato di soffocare in equilibrio precario su una croce di legno, rimane da solo in mezzo al nulla, con il bottino ai piedi e le mani legate dietro la schiena, ricordando coloritamente l’albero genealogico del Biondo, mentre l’ultima parola si fonde con le note di Ennio Morricone. Perfetto? Perfetto.
Eli: 98 anni. Veterano della Seconda guerra mondiale. 66 anni di matrimonio. 3 figli. Più di 50 film. Ballò con Marilyn. Arrivò alle porte dell’inferno con Clint Eastwood. Così si fa.
– A. O. Scott, critico cinematografico e nipote di Eli Wallach.

Il buono, il brutto, il cattivo
Un film di Sergio Leone, 1966. Italia, Alberto Grimaldi per PEA. 178′, colore.
Soggetto: Luciano Vincenzoni, Sergio Leone. Sceneggiatura: Age e Scarpelli, Luciano Vincenzoni, Sergio Leone. Interpreti: Aldo Giuffrè, Antonio Casale, Clint Eastwood, Eli Wallach, Enzo Petito, John Bartho, Lee Van Cleef, Livio Lorenzon, Luigi Pistilli, Mario Brega, Rada Rassimov, Sandro Scarchilli. Fotografia: Tonino Delli Colli. Effetti speciali: Eros Bacciucchi. Montaggio: Eugenio Alabiso, Nino Baragli. Scenografia: Carlo Simi. Musiche: Ennio Morricone.
Dichiarazioni tratte da: Michael Billington: “Eli Wallach: strength of character” (The Guardian, 24 luglio 2000), Christopher Frayling: Sergio Leone. Something to do with Death (2000), Eli Wallach. The Good, the Bad and Me (2006), A. O. Scott: “Oscar catches up with Eli” (New York Times, 4 novembre 2010), Peter Bradshaw: “Eli Wallach: 50 years of being very good, bad and (occasionally) ugly” (The Guardian, 25 giugno 2014).
Capolavori del western, anche sotto la neve: