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Utah, 1899. Un gruppo di uomini e donne costretti a diventare fuorilegge si rifugia nelle colline intorno a Snow Hill. Quando l’usuraio Henry Pollicut (Luigi Pistilli) mette sulle loro tracce -stremate dal freddo e dalla fame- la banda di cacciatori di taglie capitanata da Tigrero (Klaus Kinski), a schierarsi dalla parte della popolazione sono soltanto il neo sceriffo Gideon Corbett (Frank Wolff) e Silenzio (Jean-Louis Trintignant), un pistolero assoldato dalla giovane Pauline (Vonetta McGee) per vendicare l’assassinio di suo marito.


Qual è il miglior western di Sergio Corbucci? Il grande silenzio (1968) se la gioca con Django (1966) e il risultato della partita è tutt’altro che scontato, se a sfidarsi sono due dei più bei diamanti del genere, citati e ricitati (“rivadi, contessa”) fino allo sfinimento, con Quentin Tarantino sempre in prima fila e non sempre in equilibrio sulla linea che separa l’omaggio dal plagio. Confini labili, come quelli di un film che rifiuta qualsiasi categorizzazione radicale, una storia e una regia anarchiche e rigorose al tempo stesso, ciniche e luminose, profondamente sincere.
Inoltre, Il grande silenzio ripercorre la poco trafficata strada del western invernale, facendo scomparire anche le sue frontiere interne sotto la “grande bufera” di fine Ottocento, nevicate che spazzano via (quasi) tutti i punti di riferimento geografici e morali. Sporco, violento, segnato da un fascino selvaggio (Corbucci gioca con primi piani e campi lunghi come la fotografia di Silvano Ippoliti gioca con il bianco infinito degli esterni e i colori saturi degli interni accaldati e caotici), ci invita a lasciare ogni speranza, noi ch’entriamo a Snow Hill. O, almeno, così sembra.


Se Alberto Lattuada aveva ragione e “nulla è in grado come il cinematografo di rivelare i fondamenti di una nazione”, Il grande silenzio è un figlio prediletto, ma particolare, del suo tempo: uscito in sala in piena tormenta sessantottina (il regista pianificava le riprese quando il cadavere del Che Guevara rimbalzò sui giornali di tutto il mondo) e in un’Italia che chiamava alle porte degli anni di piombo, non è, però, un western politico canonico, sequestrato dalla narrativa marxista che traina, più o meno semplicisticamente, molte altre opere del periodo.
“Io ti conosco, straniero: sei dalla parte di quelli che lottano contro i potenti, la tua pistola difende da ingiustizie”. La prostituta Regina (Marisa Merlini) dà il benvenuto a Silenzio, tracciando l’identikit di chi è un fuorilegge per la legge e un barlume di giustizia per i calpestati. “Quando un film ha molto successo, i produttori ti propongono sempre lo stesso personaggio”, rifletteva Trintignant, reduce del fortunatissimo Un uomo, una donna, in un’intervista rilasciata a Lello Bersani nel 1967, “adesso posso fare film un po’ più difficili”.


E, in effetti, l’attore francese seppe scrollarsi di dosso tutti i preconcetti con un’eleganza sublime. Il suo Silenzio si siede all’incrocio tra l’uomo senza nome di Clint Eastwood e il Django di Franco Nero; dotato di un ferreo codice d’onore e di una bellezza quasi insolente -sublimata dalla vulnerabilità fisica ed emozionale e dalla magistrale colonna sonora di Ennio Morricone-, diventa uno degli eroi tragici più umani e nobili del West. Di fronte a lui, invece, spuntano quelli che operano scrupolosamente a norma di legge, in nome della legge.
Vale a dire, la sete omicida di Tigrero (Klaus Kinski, doppiato da Giancarlo Maestri e appena uscito da un dipinto di Julio Romero de Torres, giganteggia in un ruolo fatto di sadismo, spietatezza e gestualità straordinaria) e l’avarizia disumana di Pollicut, con il diritto a “un interesse del 25% per ogni anticipazione [delle taglie] che effettuo, un piccolo guadagno che lo Stato mi riconosce. La legge prevede tutto”. I cattivi lavorano per lo Stato, protettori e servi del capitale, in un mare di corruzione “proto capitalista” capace di infestare persino la fine del mondo.


Ma, se Pollicut è una sorta di guardia del corpo di Tigrero, Corbett lo è, a modo suo, di Silenzio. Un po’ imbranato, un po’ bambino con la stella appuntata al petto, vuole fare giustizia, quella vera, ad ogni costo, in attesa dell’amnistia che, promessa dal governatore (Carlo D’Angelo), ha imbestialito ancor di più i cacciatori di taglie. Luigi Pistilli e Frank Wolff si mettono nei panni della strana coppia di rappresentanti della legge che ripeteranno quattro anni dopo, a ruoli invertiti, in un altro capolavoro carico di rabbia e genio, Milano calibro 9.
Lo sceriffo esemplare fino all’innocenza (“La morte di un bandito non dev’essere una speculazione, ma un esempio”) e l’usuraio, nonché giudice di pace, per cui la vita si misura in soldi (“Viveri! Adesso i banditi vengono trattati a colpi di pagnotta!”), nel film di Fernando Di Leo diventeranno rispettivamente il commissario capo fascistico e il vice commissario progressista che impara sulla propria pelle il prezzo dell’integrità professionale. Sempre con la stessa classe, irresistibili sia nello Utah che nei bassifondi meneghini.


Del film si è detto che non ha onore, che non è epico. Ma Silenzio -Cristo che vede Barabba liberato dalla falsa legalità (“Ho dell’altra merce da caricare”, Tigrero sorride, puntando il dito verso i cadaveri sparpagliati sulla neve, “io difendo l’unica legge che vale: quella del più forte”) lancia una sfida etica ed estetica ai canoni del genere che, proprio perché “fuori dal mondo”, si trasforma in un atto di accusa devastante e atemporale contro il capitalismo darwiniano capace di gettare gli esseri umani nell’abisso più buio di corruzione morale.
Perciò sì, Il grande silenzio ha onore, ed epicità, e una dignità fulgente, la più feroce, quella che vede i buoni -non necessariamente santi- impegnati a fare il loro dovere, anche quando la speranza è appesa a un filo, anche quando il filo si è spezzato. E, sebbene qui non ci sia un Chuncho alla Volontè (“Non comprare il pane, hombre, compra dinamite!”), c’è Regina: inferocito dalla rettitudine dello sceriffo, l’usuraio si chiede: “Quando ritornerà la legge e il buon senso a Snow Hill?”; risponde lei: “Quando vi impiccheranno”.
Il grande silenzio
Un film di Sergio Corbucci, 1968. Italia, Adelphia Compagnia Cinematografica. Colore, 102′.
Soggetto: Sergio Corbucci. Sceneggiatura: Bruno Corbucci, Mario Amendola, Sergio Corbucci, Vittoriano Petrilli. Interpreti: Carlo D’Angelo, Frank Wolff, Jean-Louis Trintignant, Klaus Kinski, Luigi Pistilli, Maria Mizar, Mario Brega, Marisa Merlini, Marisa Sally, Mirella Pamphili, Raf Baldassarre, Remo De Angelis, Spartaco Conversi, Vonetta McGee. Fotografia: Silvano Ippoliti. Montaggio: Amedeo Salfa. Scenografia: Riccardo Domenici. Musiche: Ennio Morricone.
“Delinquente si nasce! Ma tu forse forse ce l’hai coi ricchi?”: