La notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969 la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio (c. 1609) fu trafugata dall’Oratorio di San Lorenzo, nel cuore della Kalsa palermitana. Il furto della tela, un rompicapo al quale mancano ancora oggi quasi tutti i tasselli, ha esercitato una profonda influenza sull’immaginario collettivo italiano. Anche Leonardo Sciascia rimase scosso dalla vicenda, tanto da prenderne spunto per Una storia semplice, il suo testamento letterario e civile.
Gian Maria Volontè in Una storia semplice. Emidio Greco, 1991.

E “testamento” è un termine tutt’altro che casuale: il racconto fu pubblicato da Adelphi lo stesso giorno della morte di Sciascia, il 20 novembre 1989. Poche settimane prima, in un’intervista rilasciata a Benedetta Craveri, lo scrittore aveva ricordato come la gestazione di Una storia semplice fosse stata essa stessa un racconto:

È stato un modo di sopravvivere allo strazio della malattia e delle cure, quasi in doloroso dormiveglia. Posso dire di averlo mentalmente scritto pagina per pagina: e sarebbero state circa trecento. Ma appena ho trovato quel poco di energia che mi ha permesso materialmente di scriverlo, sono venute fuori una cinquantina di pagine: e mi pare di non aver lasciato fuori nulla di tutto quel che avevo mentalmente scritto nelle trecento.

Una storia semplice divenne così l’esempio compiuto di genio letterario capace di imbottigliare un uragano. Un’essenzialità letta con fedeltà mirabile da Emidio Greco nella trasposizione filmica del testo (1991), ancora più preziosa grazie a tre superbe scelte attoriali: Ennio Fantastichini, Gian Maria Volontè e Ricky Tognazzi.

Al centro del racconto, l’indagine sulla morte di Giorgio Roccella condotta dal brigadiere Lepri (Tognazzi), il quale, assillato dai colleghi -difensori di un’inconsistente teoria del suicidio- e affiancato da uno dei testimoni, il professor Carmelo Franzò (Volontè), sbroglierà una matassa paurosa: l’improvviso ritorno dell’ex diplomatico nel suo paese d’origine aveva rischiato di far saltare in aria una rete di traffici di droga e opere d’arte formata da alcuni dei membri più onorevoli della società, a cominciare dal “suo” commissario (Fantastichini), che avevano scelto villa Roccella come centro nevralgico delle operazioni criminali.

Ennio Fantastichini in Una storia semplice. Emidio Greco, 1991.

In Breve storia del romanzo poliziesco, il Leonardo Sciascia saggista riflette sullo status di “restaurazione dell’ordine” di cui gode tradizionalmente il crimine risolto nella letteratura gialla; al narratore, invece, i finali consolatori vanno spesso stretti e, da Il contesto a Todo Modo, gli esempi del crimine inteso non come anomalia sociale, ma come essenza stessa della società, permeano la sua produzione. Una storia semplice mette in luce le fondamenta sulle quali poggia un castello di illegalità abitato da istituzioni, forze dell’ordine, rappresentanti politici e magistrati, con il contributo, per azione o per omissione, di una sostanziosa fetta del popolo.

Il sipario cala con “l’uomo della Volvo” (Massimo Ghini), commesso viaggiatore del nord, unico testimone in grado di collegare la morte di Roccella con un duplice omicidio accaduto nella stazione ferroviaria: accortosi dell’identità al di sopra di ogni sospetto di uno dei delinquenti, “pensò di tornare alla questura. Ma un momento dopo: e che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora? E riprese cantando la strada verso casa”. Sciascia e Greco ci catapultano nella dimensione pirandelliana senza tempo fatta di maschere e volti, una tragedia tellurica che vede in Lepri e Franzò lo stesso eroe all’inizio e alla fine del suo percorso terreno.

Gian Maria Volontè e Ricky Tognazzi in Una storia semplice. Emidio Greco, 1991.

Davanti agli occhi del brigadiere, uomo integro, senza spirito (malinteso) di corpo, viene tessuta una ragnatela di omertà (“Questo è un caso semplice, bisogna non farlo montare e sbrigarcene al più presto (…). Non facciamo romanzi: questa è una storia semplice”), con un solitario punto d’appoggio: il professore. In una scelta dal forte valore simbolico, pochi sono i personaggi ad avere un nome o un cognome, le parole “mafia” o “droga” non vengono mai menzionate e nemmeno viene citato il nome del dipinto, nascosto nella villa a insaputa della vittima, arrivando a un parossismo di disperazione nel primo incontro tra il commissario e Franzò:

– Lei, professore, mi è sembrato, ha un’idea di quale quadro il suo amico volesse dire.

– E lei?

– No, io no. Non mi intendo di quadri (…). Ma intanto mi dica lei, di quel quadro…

– Io non sono uno specialista di quadri scomparsi.

– Ma un’opinione ce l’ha.

– È la stessa che dovrebbe avere lei.

– Cristo! È sempre così. Anche lei, professore…

– Anche lei, commissario…

Ricky Tognazzi in Una storia semplice. Emidio Greco, 1991.

La sparizione del capolavoro, privo di qualsiasi misura di sicurezza, appare nella sua terribile verità, ovvero, non soltanto come una perdita artistica probabilmente irreparabile (il dipinto campeggia ancora tra le opere d’arte rubate più importanti del mondo), ma anche come il riflesso della sconfitta di un’intera società. Un dolore di civiltà perduta sublimato in uno dei momenti più straordinari e feroci della storia: “Nei componimenti di italiano, lei mi assegnava sempre un 3 (…). Ero piuttosto debole in italiano”, ricorda il procuratore (Gianluca Favilla), “ma, come vede, non è stato un gran guaio: adesso sono qui, procuratore della Repubblica”.

L’inflessione di Volontè nella risposta all’ex allievo è un’esplosione di rabbia contenuta di fronte allo sgretolamento culturale che avanza inarrestabile da più di trent’anni: “L’italiano non è l’italiano: è il ragionare! Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto”. Perché Franzò, erede della maturità radiosa del suo giudice Di Francesco in Porte aperte (Gianni Amelio, 1990), ha molto di testamento artistico e civile anche per Volontè: fu l’ultimo film girato in patria e il terzultimo della carriera per un attore che, carne privilegiata di Sciascia su pellicola, trovò nei testi del siciliano l’essenza dell’ambito rapporto rivoluzionario tra l’arte e la vita.

Non stupisce, dunque, che l’interpretazione di questo ruolo fosse per lui “un rompicapo, e non piacevole”, come dichiarò durante la presentazione del film alla 48esima Mostra di Venezia, il 3 settembre 1991. “Ho messo insieme i pezzi che suggeriscono le parole di Sciascia e le indicazioni del regista (…). Il mio è sempre un percorso lungo, artigianale. Me ne sto chiuso in casa dei mesi a riflettere”. E così arrivò a una lettura impeccabile dei tempi esistenziali del personaggio. “Mi recitò l’intera scena per dimostrarmi cosa intendeva fare”, ricorderà più tardi Greco, “e, dopo un attimo di sorpresa, decisi che era perfetto”.

Ennio Fantastichini in Una storia semplice. Emidio Greco, 1991.

In un’avvincente licenza cinematografica, il regista aggiunge un prologo alla storia, con Franzò e l’uomo della Volvo a bordo dello stesso traghetto. Prima di salutarsi, il professore lo guarda negli occhi: “Lei si è tenuto in gola per tutto il viaggio una domanda che voleva farmi (…), è come se l’avesse pronunciata, ce l’aveva dipinta sul viso la domanda, moriva dalla voglia di chiedermi come si fa a essere siciliano”. Una domanda la cui risposta è un’altra domanda: come si fa ad essere italiano? Perché sì, questa è una storia semplice, ma non come volevano far credere i colleghi di Lepri, vale a dire, le sempre gettonate questioni “di onore”.

Questa è una storia semplice perché è lo specchio di tutte le contraddizioni morali e civili dell’Italia: i mali della Sicilia sono i mali dell’Italia intera. “Tornerò e mi ci romperò la testa”, sono le ultime parole del capitano Bellodi ne Il giorno della civetta (Damiano Damiani, 1968), e Consolo, l’unico giurato a sostenere la battaglia contro la pena di morte di Di Francesco, chiude Porte aperte dicendo: “Nonostante tutto, ho speranze”. In Una storia semplice, soltanto uno dei colpevoli viene punito (un incidente, come diranno alla stampa per evitare ulteriori indagini), mentre il resto della struttura corrotta ne esce rafforzata, sicura della sua impunità.

Gian Maria Volontè in Una storia semplice. Emidio Greco, 1991.

Prima del sopralluogo definitivo nella villa, il vecchio professore si rivolge al giovane brigadiere: “Ad un certo punto della vita, non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza”. Il fatalismo di Franzò -e, con lui, dello scrittore e dell’attore- non è, però, mancanza di speranza, bensì la disperazione della lucidità di chi è mosso dal dubbio e dall’amore alla verità, di chi deve accettare la benedetta maledizione di “essere costretto a pensare in un universo di non pensanti”. Un grido di coscienza civile contro la corruzione culturale, radice di tutti gli altri mali della terra. A futura memoria, come si chiedeva il proprio Sciascia, se la memoria ha un futuro.


Una storia semplice

Un film di Emidio Greco, 1991. Italia, BBE International – Claudio Bonivento Productions. 91′, colore.

Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura: Andrea Barbato, Emidio Greco. Interpreti: Ennio Fantastichini, Gian Maria Volontè, Gianluca Favilla, Gianmarco Tognazzi, Giovanni Alamia, Leonardo Petrillo, Massimo Dapporto, Macha Méril, Massimo Ghini, Omero Antonutti, Paolo Graziosi, Ricky Tognazzi, Tony Sperandeo. Fotografia: Tonino Delli Colli. Scenografia: Amedeo Fago. Montaggio: Alfredo Muschietti. Musiche: Luis Enríquez Bacalov.

Citazioni tratte da: Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo (Leonardo Sciascia, 1953 – 1989; Adelphi, 2018), Una storia semplice (Leonardo Sciascia, 1989; Adelphi, 2017), intervista a Leonardo Sciascia (“Mercurio”, La Repubblica, a cura di Benedetta Craveri, 28 ottobre 1989), Gian Maria Volontè. Un attore contro (AA. VV., BUR Rizzoli, 2005).

“Io non la penso affatto: semplicemente penso”:

PORTE APERTE, PORTE CHIUSE