Porte aperte (1990) fu il quartultimo film di Gian Maria Volontè, che morì quattro anni dopo a Florina, in Grecia, durante le riprese de Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos: un ruolo -Ivo Levi, responsabile della cineteca di Sarajevo, impegnato a conservare la memoria di un Paese sotto assedio- che si sarebbe incastonato come un diamante in una carriera definita dall’attore “una sequenza ininterrotta contro la cultura di morte”. Una sequenza fatta di brillanti ad alta caratura, nella quale spicca il “piccolo giudice” Vito Di Francesco, protagonista del romanzo che Leonardo Sciascia aveva dato alle stampe nel 1987.

Gian Maria Volontè in Porte aperte. Gianni Amelio, 1990.

Lo scrittore di Racalmuto prese spunto dalle vicende del suo compaesano Salvatore Petrone, che nel 1937 si era rifiutato di condannare a morte un reo confesso di tre omicidi. Il teatro della storia trasloca a una Palermo in balia della tempesta del fascismo, “città irredimibile”, trasferita dalla carta alla pellicola dal regista Gianni Amelio, rispettando tutta la carica esistenziale del testo e facendone una critica culturale e politica che oltrepassa qualsiasi “dove” e “quando” letterari. La maturità serena e radiosa di Volontè esplode in ogni movenza del magistrato di fronte a un processo sul quale soffia sin dall’inizio la certezza della pena capitale.

Il candidato alla fucilazione alla schiena davanti al cimitero della città è un uomo feroce, Tommaso Scalia -una forza della natura che permesse allo straordinario Ennio Fantastichini un cambio radicale di registro pochi mesi dopo aver girato con Amelio I ragazzi di via Panisperna-, responsabile delle morti di sua moglie, dopo averla violentata, dell’ex superiore che ne aveva deciso il licenziamento e del collega che aveva preso il suo posto negli uffici dell’Unione provinciale fascista artisti e professionisti. Scalia diventa così l’ennesima opportunità per sbandierare un sinistro culto dell’ordine che cerca di coprire le miserie morali e politiche del regime.

Per questa ragione, il ripristino della pena di morte era stato uno degli obiettivi irrinunciabili del fascismo, raggiunto nel 1930 grazie al Codice Rocco. “È questo l’ordine che c’ha promesso il fascismo? Se nun serve, perché ‘n se leva de mezzo?”, si sente gridare per le strade di Trastevere in Girolimoni, il mostro di Roma, film diretto da Damiano Damiani che ripercorre gli eventi attorno alla (non) cattura dell’assassino di bambine che, a spasso per una Roma alle porte del Ventennio, era diventato un tarlo sulle travi di chi si vantava di garantire al “suo” popolo la libertà di dormire “con le porte aperte”. “Io chiudo sempre la mia”, risponde il giudice.

Gian Maria Volontè in Porte aperte. Gianni Amelio, 1990.

Questa era “la suprema metafora dell’ordine, della sicurezza, della fiducia”. Di Francesco si oppone a una forma di assassinio “non solo impunito, ma premiato, realizzato con gratitudine e gratificazione da parte dello Stato”, che non ha niente a che vedere con una spasmodica ricerca della giustizia, bensì con i fini ultimi della propaganda politica. “Il ripristino serve a ribadire nella testa della gente l’idea di uno Stato che si preoccupa al massimo della sicurezza dei cittadini”, si difende il presidente del Tribunale (Renzo Giovampietro), “l’idea che davvero ormai si dorma con le porte aperte”.

Un ingranaggio perverso fondato sulla libertà barattata in nome di una finta sicurezza, di un ventre oscuro che cela una ragnatela viscosa di rapporti, che sporca gesti, valori, dignità. Un incrocio di omertà e paura di “pensarla” pericolosamente, protetto da una stampa inginocchiata davanti al potere in un microcosmo dove “le uniche porte che rimangono veramente aperte sono quelle della follia”. Di Francesco sopporta l’ostilità dei colleghi e persino dell’imputato -il quale, travolto dalla propria retorica di violenza, ambisce ostinatamente la condanna a morte-, rimanendo fedele alla sua idea di ciò che devono essere la Legge e il Diritto.

Un giudice alla ricerca “dei brandelli di verità” nei meccanismi sociali, come Volontè definiva il suo rapporto con il cinema. “Io credo che la pena di morte serva solo al governo”, afferma Di Francesco. “Facciamo finta di non aver sentito niente”. Ma tutti hanno sentito quel sussulto di dignità luminosa. “Lei sa come la penso”, gli aveva detto il procuratore generale. Di nuovo, “la”, pronome, per gli italiani, “della religione cattolica, del partito al governo, della massoneria, di ogni cosa che avesse -evidentemente o, peggio, oscuramente- forza e potere, di ogni cosa che fosse temibile”. Compreso il fascismo, le sue imposizioni, i suoi riti.

Gianni Amelio e Gian Maria Volontè durante le riprese di Porte aperte, 1990.

Romanzo e film si chiudono con un colloquio tra il giudice e il giurato Consolo (Renato Carpentieri), unica voce a sostenerlo durante il processo, una stima reciproca cresciuta tra illuminismo e razionalità, nutrendosi di Dostoevskij e Borges. Scalia è stato condannato all’ergastolo, anche se la sentenza sta per essere ribaltata in Cassazione e il condannato finirà per essere fucilato- e Di Francesco, trasferito in una sperduta pretura in montagna. “Nonostante tutto”, afferma Consolo, “ho speranze”. Una speranza che è passione civile nello sguardo di Volontè, compendiata nella risposta a quel terrificante “come la penso”: “Io non la penso affatto: semplicemente penso”.


Porte aperte

Un film di Gianni Amelio, 1990. Italia, Rizzoli. 108′, colore.

Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura: Alessandro Sermoneta, Gianni Amelio, Vincenzo Cerami. Interpreti: Ennio Fantastichini, Gian Maria Volontè, Renato Carpentieri, Renzo Giovampietro, Silvero Blasi, Tuccio Musumeci. Fotografia: Tonino Nardi. Montaggio: Simona Paggi. Scenografia: Franco Velchi. Musiche: Franco Piersanti.

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