Renato Rascel e Giulio Calì ne Il cappotto. Alberto Lattuada, 1952. Fotografia: www.renatorascel.com.

Gli scrittori russi assicurano: “Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol’”.

Il cappotto di Nikolaj Gogol’ (1842) è ambientato a Pietroburgo durante l’impero di Nicola I, ma la storia potrebbe svolgersi in qualsiasi città. Ieri, oggi, domani. Perciò interpretiamo la frase di Eugène-Melchior de Vogüé combinando i due livelli -letterale e simbolico- con cui la gloriosa tradizione letteraria russa ha sempre giocato: le vicende di Akakij Akakievič Bašmačkin non soltanto esercitarono un influsso diretto incommensurabile sulle successive generazioni di scrittori, da Dostoevskij a Melville o Kafka, ma stabilirono anche un modello di denuncia sociale che ha varcato tutte le frontiere cronologiche e geografiche.

Questo umile funzionario “dal colore emorroidale”, una vita dedicata alla copia compulsiva di documenti di cancelleria, è la prima tappa di un cammino brillante di analisi sociologica, lungo il quale troviamo dei miliari illustri, dal commesso viaggiatore Willy Loman di Arthur Miller al cottimista Lulù Massa di ElioPetri e Gian Maria Volontè o il ragioniere Ugo Fantozzi di Paolo Villaggio: maglie intercambiabili di una catena produttiva disumanizzata, da una scrivania del primo Novecento al “sogno americano” nel Bronx del dopoguerra, da una fabbrica milanese negli anni 70 alla Megaditta.

Akakij Akakievič, Carmine di Carmine

Renato Rascel e Yvonne Sanson ne Il cappotto. Alberto Lattuada, 1952. Fotografia: www.renatorascel.com.

Tutti “prestano tragicamente servizio” in dipartimenti dello stesso sistema, che adotta facce e colori diversi a seconda del momento storico: l’ufficio di Akakij è un altro osso del mastodonte burocratico della Russia zarista, non sappiamo quali siano i prodotti che Willy vende di città in città, Lulù fa i pezzi “che servono per un motore lì, che poi va a finire in un’altra macchina, che, però, non è lì” e Villaggio non ci raccontò mai di quale settore si occupasse l’ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica. Non c’è ne bisogno quando si lavora con dei messaggi talmente lucidi e trasversali.

Per questa ragione, nel 1952 arrivò quella che ancora oggi è una delle trasposizioni filmiche più belle del racconto (a confermare la felicità degli incontri tra la piuma di Gogol’ e il nostro cinema sarebbero arrivati La maschera del demonio nel 1960 e Gli anni ruggenti nel 1962). “I caratteri del suo racconto sono universali ed esemplari”, dichiarò Alberto Lattuada a Cinema il 15 maggio 1952, “validi in qualunque parte del mondo e in qualunque tempo: la tirannia e la cecità burocratica”. Il regista lombardo si tolse di dosso il mantello del neorealismo e, rispettando gli snodi fondamentali della storia, trovò il suo Akakij -ovvero, Carmine di Carmine- in Renato Rascel e la sua Pietroburgo a Pavia.

Una Pavia sulla quale, però, non cadde nemmeno un fiocco nell’inverno di quell’anno, costringendo la troupe a usare “tonnellate di neve artificiale”. Il risultato fu un’ambientazione che ricevette i complimenti della delegazione sovietica al Festival di Cannes. Lì, dove solo il Marlon Brando di Viva Zapata! riuscì a strappare dalle mani il premio come miglior attore a un incommensurabile Rascel (“L’ho voluto”, ricordava Lattuada, “perché aveva l’aria di un topolino furbo”), che disegna un personaggio dall’aria charlotiana indimenticabile, fatto di sguardi smarriti e silenzi assordanti, perso in mezzo a un vortice di corruzione e amore impossibile.

Figli di un dio minore

Renato Rascel e Giulio Calì ne Il cappotto. Alberto Lattuada, 1952. Fotografia: www.renatorascel.com.

Il cappotto di Gogol’ è la metafora universale di un macchinario di sfruttamento che costringe gli esseri umani (o ciò che di essi rimane) a indossare un distintivo del loro status. I giorni di Akakij sono tutti uguali: trascorre le mattine in ufficio, svolgendo sempre le stesse attività, incapace di affrontare compiti leggermente diversi, e le sere nella sua piccola stanza, dove continua a copiare documenti, dopo una cena frugale. Un’esistenza piena di condizionamenti e priva di stimoli, come quella di Fantozzi che, nel suo primo giorno da pensionato, torna in ufficio (“Era uno scherzo, pecoroni…”).

Akakij è il nulla in una società stratificata e crudele, mortificato e deriso dai colleghi e dai superiori, che nascondono così le proprie frustrazioni. Il suo “Perché mi offendete? Lasciatemi stare!” è il “Merdaccia!” del ragioniere e il “Buffone!” di Willy, valvole di sfogo nella sempiterna guerra tra poveri voluta dai padroni. L’umile funzionario ha abdicato alla sua vita privata, personale, morale, intellettuale, e reagisce solo quando la neve e il vento, che soffia “a tratti, come raffiche di mitra” (a spasso sulla Prospettiva Nevskij, è impossibile non citare il maestro Battiato) mettono in pericolo la mera esistenza fisica.

La sentenza del sarto Petrovič (Giulio Calì) è inappellabile: “Non sopravvivrai all’inverno con questo cappotto”. Ce ne vuole uno nuovo di zecca, vale a dire, mesi di privazioni e sacrifici umilianti, dai pranzi dimezzati alle passeggiate in punta dei piedi per non consumare le suole o alle monete ricevute dalla donna dei suoi sogni (Yvonne Sanson), che lo scambia per un mendicante. Come in una favola, il miracolo avviene e riesce a risparmiare tutti e mille i rubli con i quali Petrovič confeziona un capolavoro tessile, passe-partout del girone dei riusciti: le voci di corridoio finiscono e il fiammante cappotto rompe l’assoluta ripetitività della sua esistenza.

“Che vita è la nostra?”

Giulio Stival e Renato Rascel ne Il cappotto. Alberto Lattuada, 1952. Fotografia: www.renatorascel.com.

Il nuovo status gli regala persino l’invito a una festa dai padroni, ma, quando i bisogni diventano sogni, niente può funzionare in una vita. E, ancora una volta come in una favola, allo scoccare della mezzanotte, nella solitudine stridente della grande città, l’incantesimo si rompe e Akakij viene derubato del cappotto, una sorta di punizione divina (o, peggio ancora, sociale) per aver calpestato terreni che non gli appartenevano, come “i micidiali frac presi in affitto” da Fantozzi e Filini, o il completo che il figlio di Willy indossa quando va (invano) a cercare un nuovo lavoro, dopo anni sprecati a rincorrere sogni prestati.

Il senso della vita, la sicurezza, scompaiono e l’assurdo della sua esistenza schiaffeggia Akakij nel modo più crudele: si è sacrificato nell’altare di un macchinario burocratico e sociale che si rifiuta di aiutarlo. In giro con il vecchio straccio, le sue richieste disperate di aiuto non trovano destinatario. Ancor di più, viene nuovamente ignorato e umiliato e finisce per morire di freddo, di esaurimento nervoso, nell’indifferenza generale. “Ho dedicato 34 anni della mia vita a questa ditta e non so come pagare l’assicurazione”, grida Willy, “non si può spremere un uomo come un limone e buttarlo via nella spazzatura!”.

Poche ore dopo, un nuovo funzionario si siede nella scrivania di Akakij, così come un giovane commesso sostituisce Loman. “Che vita è la nostra?”, si chiedeva Lulù, “questo è un pro forma!”, che vale quanto è capace di produrre. Non c’è speranza? Nell’apoteosi della genialità gogoliana, il fantasma di Akakij (ri)sveglia la cattiva coscienza del “personaggio importante” (il sindaco, Giulio Stival) che gli aveva negato giustizia e si impadronisce del suo bellissimo cappotto. Che questo pezzo maestro (ri)svegli il nostro diritto alla speranza e alla ribellione. E che il fantozziano “Ma allora mi hanno sempre preso per il culo!” non arrivi troppo tardi.


Il cappotto

Un film di Alberto Lattuada, 1952. Italia, Faro Film. 85′, b/n.

Soggetto: tratto dal racconto omonimo di Nikolaj Gogol’. Sceneggiatura: Alberto Lattuada, Cesare Zavattini, Giorgio Prosperi, Leonardo Sinisgalli, Luigi Malerba. Interpreti: Anna Carena, Antonella Lualdi, Ettore Mattia, Giulio Calì, Giulio Stival, Luigi Moneta, Nino Marchetti, Olinto Cristina, Renato Rascel, Yvonne Sanson. Fotografia: Mario Montuori. Montaggio: Eraldo Da Roma. Scenografia: Gianni Polidori. Musiche: Felice Lattuada.

Da “Il cappotto” pavese a “L’ispettore generale” pugliese:

GLI ANNI RUGGENTI, MA NON TROPPO