Io sono figlio del Caos, e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato in forma dialettale Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos.

Quando i fratelli Lumière organizzarono la prima proiezione pubblica del cinématographe a Parigi, la sera del 28 dicembre 1895, Luigi Pirandello non aveva ancora compiuto i 30 anni. Il suo rapporto con le immagini in movimento fu oscillante, ma, dopo i tentennamenti iniziali, finì con l’aprirsi alle loro possibilità. Con il mondo in effervescenza per l’arrivo del cinema sonoro, il 19 aprile 1929 rilasciò un’intervista al Corriere della sera, denunciando quello che, a suo avviso, era stato il grande errore della settima arte, ovvero, l’aver tentato di sostituire la parola e, al tempo stesso, farne a meno.

“Il cinema deve liberarsi dalla letteratura per trovare la sua vera espressione e concretare la sua rivoluzione”. Parole profetiche sulla relazione conflittuale con la pellicola che il suo teatro e, soprattutto, la sua prosa erano destinate ad avere, un’impresa affatto facile che per molto tempo non diede risultati soddisfacenti. A compiere il miracolo di attraversare cinematograficamente il verbo di Pirandello rispettando i significati profondi del suo universo furono due toscani straordinari, Paolo e Vittorio Taviani, un’intesa che in Kaos (1984) tocca vette evocative e poetiche di rado raggiunte sul grande schermo.

Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ne “La giara”. Kaos, Paolo e Vittorio Taviani, 1984.

Il film prende spunto da sei Novelle per un anno e si svolge in quattro episodi e un epilogo, uniti da un filo rosso, “Il corvo di Mizzaro”, come quello che guidava -o, almeno, ci provava- i passi di Totò e Ninetto Davoli negli Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini (1966). L’intuito geniale dei fratelli cancella in questa maniera il peccato originale di cui si erano macchiati i precedenti adattamenti cinematografici pirandelliani, compreso il film collettivo Questa è la vita (1954), segnato dalle stupende interpretazioni di Aldo Fabrizi, Totò e Turi Pandolfini: la mancanza di qualsiasi organicità.

Il corvo, con un campanellino di bronzo al collo e scambiato per uno spirito, sorvola e abbraccia la Sicilia di Pirandello, che i Taviani catturano in tutta la sua essenza con una mirabile omogeneità narrativa. Se “L’altro figlio” racconta l’angoscia di una madre davanti alla creatura che sembra la reincarnazione dell’uomo che l’ha violentata, “Mal di luna” esplora quella di una giovane sposa di fronte alla malattia dell’amato, colto da violenti raptus nelle notti di luna piena, mentre “Requiem” si butta nell’assurdo burocratico che impedisce ai contadini di seppellire il patriarca secondo le loro usanze.

Tre tra i racconti più tellurici delle Novelle, quelli che affondano le radici nel nucleo stesso della terra, in un delizioso equilibrio tra realtà e fantasia, razionalità e superstizione, amore e pietà, fato e ribellione. Ma, se c’è un episodio che sublima l’universo pirandelliano, esso è “La giara”, dove ai due signori straordinari di prima se ne aggiunsero altri due, in quest’occasione, davanti alla cinepresa: fu l’ultima fatica cinematografica di Franco e Ciccio ed è difficile pensare a un finale più bello e simbolico per la loro carriera. Una presenza fortemente voluta (anzi, “imposta”) dai registi.

Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e i fratelli Taviani durante le riprese de “La giara”. Kaos, 1984.

“Per raccontare questo episodio”, ricordava Vittorio, “avevamo bisogno di sentire l’odore della piazza e della strada dove loro hanno cominciato a fare spettacolo”. Due ruoli che incarnano la dicotomia tra opposti targata Pirandello e l’anima di un’isola incantata, “figliola prodiga” della Grecia, eterna come la tradizione artistica di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, “figlioli prodighi” della posteggia e la vastasata. Al centro della storia e della masseria di don Lollò (Ciccio), la giara, pronta per essere riempita con l’olio di un’annata eccezionale. Ma, al risveglio del grande giorno, il latifondista si trova dinnanzi al simbolo del suo potere spaccato in due.

La risposta al danno apparentemente fatale arriva da Sara (Mariella Lo Sardo), la “sua” donna (un’altra licenza cinematografica vincente dei Taviani), figlia del popolo, anello di congiunzione tra la sfera materiale e il mondo magico. “Vorresti farmi credere ai miracoli?” -indimenticabile la camminata infuriata di Ingrassia, poi tramutata in disperazione, in uno sguardo smarrito di potenza infranta-, “C’è chi li fa ancora”. È il conciabrocche zi’ Dima, nel quale Franco dispiega il suo immenso lato drammatico. Al padrone non basta, però, che la ripari: deve farlo secondo le sue convinzioni, sotto il suo dominio.

La volontà dell’artigiano viene violentata dal potere economico ed è costretto, oltre all’utilizzo del “mastice miracoloso”, alla riparazione attraverso la cucitura dei punti sull’urna: così tradisce il suo modus operandi e vi resta imprigionato. Per liberarsi, vuole rompere la giara saldata, ma si trova con l’opposizione feroce di don Lollò, nascendo tra di loro un battibecco potenzialmente infinito, che il latifondista cerca -di nuovo, invano- di risolvere attraverso una legalità estranea. Né soldi né avvocati: la sua prepotenza ha interrotto il movimento magico dell’artista e la punizione arriva al calare del sole.

Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ne “La giara”. Kaos, Paolo e Vittorio Taviani, 1984.

Sotto la luce di Selene si sovverte l’ordine diurno e i salariati danzano attorno a quell’oggetto che non è più la rappresentazione del Panopticon padronale: zi’ Dima ha preso il posto dell’olio e diventa un maestro di cerimonie pagano, un Sabba interrotto ancora una volta da don Lollò, che distrugge la giara con un calcio. Il conciabrocche è libero: la sapienza antica rinasce e si prende la rivincita, seppur momentanea, sull’ordine artificiale. Il cortile quadrato della masseria imprigionava il cerchio dei danzatori proletari, i quali imprigionavano il piedistallo quadrato (con quattro scivoli, formando una croce), trono della giara.

Una giara che, però, è un altro cerchio. È l’eccezionale rappresentazione simbolica della natura arbitraria del potere, ripercorsa con precisione dai Taviani nella loro filmografia, lo specchio dell’antagonismo tra mondo antico e società moderna. Quello tra da don Lollò e zi’ Dima è un conflitto eterno e insanabile perché si trova alla radice della natura umana. È possibile attenuarlo? Nell’“Epilogo: dialogo con la madre”, Pirandello (Omero Antonutti) si confessa con il fantasma della madre, incapace di trovare le parole giuste per una storia che avrebbe voluto, che vorrebbe scrivere. La risposta?

Ormai io faccio fatica a seguirti, figlio, nei tuoi discorsi, sono diventati troppo difficili per me. Eppure, una cosa io sento di poterti ancora dire: impara a guardare le cose anche con gli occhi di chi non le vede più. Ne proverai dolore, certo, ma quel dolore te le renderà più sacre e più belle. Forse è solo per dirti questo che ti ho fatto venire sin qua.

Una lezione di cinema. Una lezione di vita. Forse sono la stessa cosa.


Kaos

Un film di Paolo e Vittorio Taviani, 1984. Italia, Giuliani G. De Negri. 157′ (versione cinematografica) e 188′ (versione televisiva), colore.

Soggetto: tratto dalle Novelle per un anno di Luigi Pirandello. Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Tonino Guerra. Interpreti: Gianni Musy, Laura Mollica, Margarita Lozano, Salvatore Rossi (“L’altro figlio”). Anna Malvica, Claudio Bigagli, Enrica Maria Modugno, Massimo Bonetti (“Mal di luna”). Biagio Barone, Laura Mollica, Pasquale Spadola, Salvatore Rossi (“Requiem”). Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, Mariella Lo Sardo (“La giara”). Laura De Marchi, Massimo Bonetti, Omero Antonutti, Regina Bianchi (“Colloquio con la madre”). Fotografia: Giuseppe Lanci. Montaggio: Roberto Perpignani. Scenografia: Francesco Bronzi. Musiche: Nicola Piovani.

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