Jorge Luis Borges e Orhan Pamuk annoverano Dostoevskij tra gli eventi in grado di segnare l’esistenza di un essere umano. Il primo, argentino, classe 1899, lo paragonava alla scoperta dell’amore o del mare; con lui, il mondo del secondo, turco, classe 1952, “si trasformò per sempre: fu una perdita dell’innocenza nella vita”.

È lo stesso effetto (frontiere in frantumi comprese) provocato da due anarchici italiani, Sacco e Vanzetti, ingiustamente accusati di rapina a mano armata e dell’omicidio di due impiegati del calzaturificio Slater & Morrill a South Braintree, nello stato del Massachusetts, il 15 aprile 1920, e assassinati sulla sedia elettrica del penitenziario di Charlestown il 23 agosto 1927. Perché la storia di Nicola -calzolaio pugliese, 29enne nel momento dell’arresto- e Bartolomeo -pescivendolo piemontese, 32enne- si spinge molto oltre l’identificazione con la loro fede politica: come i testi dello scrittore russo, ci mette di fronte alla più essenziale concezione della dignità umana.

Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco a Dedham, Massachusetts Superior Court, 1923. Boston Public Library.

Una vicenda che spaccò il mondo in due e che Giuliano Montaldo, “sempre interessato e appassionato ai personaggi che, con dignità e impeto, vivono con coraggio in una società che li opprime”, scoprì quasi per caso, una sera a Genova, grazie a una pièce teatrale diretta da Giancarlo Sbragia. Fu l’inizio dei più di due anni di ricerche e setacciato degli archivi giudiziari americani precedenti alle riprese di Sacco e Vanzetti (1971), manifesto di passione civile che provocò una seconda ondata internazionale di riscoperta del caso e, dopo l’accoglienza irata d’obbligo da parte della stampa statunitense, una cerimonia pubblica di “riabilitazione” dei due italiani.

“Una scossa che nessuno si aspettava” attraverso la pelle di due conterranei di Nicola e Bartolomeo. Parlare del Vanzetti, il “Bart” che cantava Joan Baez sulle note del maestro Ennio Morricone, di Gian Maria Volontè -una potenza fisica stregante, un vulcano trattenuto- è abbracciare il gioco da kamikaze di scegliere i migliori ruoli della sua carriera; sarebbe, però, altrettanto suicida non includerlo in questo elenco ideale (e impossibile). Accanto a lui, Riccardo Cucciolla tesse un Sacco che rasenta il miracolo, una creatura dalla bellezza fisica e morale disarmante, la più fragile e indistruttibile in mezzo alla tempesta perfetta.

Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volontè in Sacco e Vanzetti. Giuliano Montaldo, 1971.

La sceneggiatura è una ragnatela che lascia lo spettatore indifeso dalla prima sequenza, il rastrellamento della comunità italiana dopo l’attentato, che funziona come una sorta di ritorno al futuro dell’incubo nazista. Da quel momento, lo lascia precipitare nell’abisso di sette anni di calvario, a cavallo di una cinepresa in cerca costante del senso di spaesamento e angoscia di due innocenti, combinando i momenti fondamentali del processo-farsa con i flashback, il bianco e nero e i filmati d’epoca, assieme all’uso delle inquadrature ravvicinate che confermano l’intuizione di John Cassavetes: “Il volto umano è il miglior paesaggio filmico”.

Una storia con la quale Montaldo strizzava un occhio al presente: nella “caduta” di Andrea Salsedo -avvenuta il 3 maggio 1920, un fantasma che aleggia su Nicola e Bartolomeo dal primo interrogatorio- riecheggiava la “caduta” del ferroviere coinvolto nelle inchieste sulla strage di Piazza Fontana, denunciata da Elio Petri e Volontè in Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli. Morti accidentali di anarchici, dalle finestre degli uffici del FBI a New York a quelle della questura milanese di via Fatebenefratelli: “Ho fatto un film che mi ha fatto scoprire un certo modo di violenza, di odio, di morte. Mi chiedono cosa cambiò: la mia insofferenza verso l’intolleranza”.

Fu il secondo capitolo della trilogia dedicata alla distorsione storica dell’autorità con la quale il regista inaugurò il decennio: se Gott mit uns (1970) analizzava gli abusi del potere politico e Giordano Bruno (1973, chi, se non Volontè), quello religioso, Sacco e Vanzetti affonda la lama nel ventre di una giustizia profondamente corrotta, esacerbata dalla demagogia più feroce. Il crollo del castello di menzogne non fermò un processo politico che aveva trovato due capri espiatori perfetti. “Italiani, greci, polacchi, cileni”, dice l’avvocato dell’accusa, “fa pena pensare ai loro sforzi inumani per mettere radici in una civiltà superiore”.

Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volontè in Sacco e Vanzetti. Giuliano Montaldo, 1971.

Nicola e Bartolomeo erano macchiati da un doppio peccato originale: il primo, razziale, figli com’erano della “grande migrazione” che, tra il 1861 e la Prima guerra mondiale, vide circa 9 milioni di italiani lasciare il Paese, il che faceva di loro due criminali, due inferiori, due miserabili, spesso con un punto interrogativo accanto alla scritta “bianco” nei documenti rilasciati dall’ufficio immigrazione a Ellis Island, nella baia di New York, dove approdavano i bastimenti; il secondo, politico: “Se fossimo due assassini, andrebbe anche bene”, dice Vanzetti quando la palese innocenza della coppia sembra prendere il sopravvento, “ma siamo due anarchici”.

C’era bisogno di una condanna esemplare, spietata, in un Paese in balia della paranoia e la xenofobia, che raschiava il fondo del barile della prima “paura rossa”. I loro corpi martoriati, spesso citati come l’episodio più divisivo degli Stati Uniti dalla Guerra civile, dovevano essere un monito contro qualsiasi tentativo di rovesciamento dell’ordine. Un linciaggio politico che faceva saltare in aria il miraggio di libertà. “È la morte del rispetto verso le istituzioni capitalistiche”, scrisse l’Industrial Worker il 13 agosto 1927, “due innocenti condannati senza processo, perché ciò che loro chiamano processo è stato una vergognosa farsa di istituzioni prostituite e corrotte”.

Ho da dire che sono innocente. In tutta la mia vita non ho mai rubato, non ho mai ammazzato, non ho mai versato sangue umano, io. Ho combattuto per eliminare il delitto, primo fra tutti, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. E, se c’è una ragione per la quale sono qui, è questa e non altra. Sto soffrendo e pagando per colpe che effettivamente ho commesso: perché sono anarchico, e mi sun anarchic; perché sono italiano, e io sono italiano. Ma sono così convinto di essere nel giusto che, se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte e io per due volte potessi rinascere, rivivrei per fare esattamente le stesse cose che ho fatto.

Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volontè in Sacco e Vanzetti. Giuliano Montaldo, 1971.

È difficile pensare a due esseri più piccoli di Nicola e Bartolomeo. Eppure, fecero trattenere il respiro al mondo. “Senza di loro, noi saremmo morti come due poveri sfruttati e mai avremmo potuto sperare di fare tanto in favore della tolleranza, della giustizia, della comprensione fra gli uomini”. Uno dei produttori del film, di origine ebrea e scappato in America durante il periodo delle leggi razziali, aveva imparato l’inglese leggendo le lettere di Nicola al figlio Dante: fu il suo modo di pagare il debito. Frammenti che, nella voce di Cucciolla, sono una scossa morale ed estetica al tempo stesso. Ancora una volta, sfiora il miracolo. Anzi, ci si butta a capofitto.

Mio caro figlio, ho sognato di voi giorno e notte. Non sapevo più se la mia era vita o morte, volevo tornare a riabbracciarvi, te e la tua mamma. Perdonami, bambino mio, per questa morte ingiusta che ti toglie il padre quando sei ancora in così tenera età. Possono bruciare i nostri corpi oggi, non possono distruggere le nostre idee: esse rimangono per i giovani del futuro, per i giovani come te. Ricorda, figlio mio: la felicità dei giochi non tenerla tutta per te, cerca di comprendere con umiltà il prossimo, aiuta il debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il perseguitato, l’oppresso. Loro sono i tuoi migliori amici.

“Vedendo Gian Maria capirete cosa vuol dire il mestiere dell’attore”. Aggiungete alla definizione di Montaldo il nome di Riccardo Cucciolla e avrete un’idea abbastanza precisa di ciò che significa non soltanto il mestiere dell’attore, ma anche la passione civile e la dignità. Un sussulto di rabbia e dolore, ma, “in una società abituata a dimenticare tutto molto rapidamente”, anche un soffio ardente di speranza. “Quando le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il nome di Nicola Sacco sarà ancora vivo nel cuore della gente”. Vanzetti aveva ragione: cent’anni dopo l’accusa, 93 dopo l’uccisione, continuiamo a parlare di Nicola e Bart.

Riccardo Cucciolla in Sacco e Vanzetti. Un film di Giuliano Montaldo, 1971.

Sacco e Vanzetti

Un film di Giuliano Montaldo, 1971. Italia – Francia, Arrigo Colombo e Giorgio Papi. 120′, colore.

Soggetto: Fabrizio Onofri, Giuliano Montaldo, Mino Roli. Sceneggiatura: Fabrizio Onofri, Giuliano Montaldo, Ottavio Jemma. Interpreti: Armenia Balducci, Cyril Cusack, Geoffrey Keen, Gian Maria Volontè, Milo O’Shea, Riccardo Cucciolla, Rosanna Fratello, Sergio Fantoni, William Prince. Fotografia: Silvano Ippoliti. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Aurelio Crugnola. Musiche: Ennio Morricone.

Dichiarazioni di Giuliano Montaldo tratte da: intervista a L’Unità, 6 febbraio 1994. Gian Maria Volontè, un attore contro, AA. VV., BUR Rizzoli, 2005. La morte legale: Giuliano Montaldo e la genesi di Sacco e Vanzetti, Giotto Barbieri e Silvia Giulietti, 2018.

Morti accidentali di anarchici:

TRE IPOTESI SULLA MORTE DI GIUSEPPE PINELLI