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Giuseppe Fava scrisse il dramma teatrale La violenza nel 1969, rispolverando la premessa del racconto di Leonardo Sciascia Il giorno della civetta (1961): quali sono i giochi di potere che si scatenano attorno alla realizzazione di un’opera pubblica -una diga nel primo caso, un’autostrada nel secondo- in un paese siciliano. Due opere che conformano un dittico perfetto -se Sciascia direziona la luce verso le indagini dei carabinieri, Fava la accende nell’aula del tribunale- sul dilagare della ragnatela mafiosa in tutti i livelli socio-economici e su come siano i fili più sottili a pagare i conti di uno Stato -per omissione, per collusione- troppo spesso latitante.

Entrambe le opere vennero portate sul grande schermo: Il giorno della civetta di Damiano Damiani riscosse un meritato successo di critica e pubblico nel 1968, ma La violenza: quinto potere rimane ancora oggi un gioiello filmico e civile incomprensibilmente misconosciuto. Florestano Vancini, esperto nel maneggiare storie corali e con lo sguardo sempre attento e sincero rivolto verso il Sud, salutò l’avvento del furore politico degli anni ’70 con questo adattamento del testo del giornalista siracusano, primo capitolo di una trilogia imprescindibile, continuata con Bronte, cronaca di un massacro che i libri di Storia non hanno raccontato (1972) e Il delitto Matteotti (1973).
Vancini, in veste di regista e sceneggiatore, disegna un esercizio filmico dai ritmi serrati che vola tra note del maestro Ennio Morricone; un polso narrativo mozzafiato, sostenuto da un elenco eccezionale di attori che si incrociano nell’aula di un tribunale sul quale aleggiano i fantasmi di sedici morti e più di cinquanta spariti. Su questi figli bastardi della faida tra le cosche di Amedeo Barresi (Mario Adorf) e l’ingegner Crupi (Georges Wilson) vuole far chiarezza il Pubblico ministero (Enrico Maria Salerno), ma la sua sete di giustizia si schianta contro una squadra di avvocati corrotti capitanata da Colonnesi (Gastone Moschin) e cullata dal giudice Altofascio (Turi Ferro).

La violenza: quinto potere affonda il coltello nella piaga mafiosa e denuncia un sistema che mette a repentaglio “la libertà stessa dell’essere umano”, in cui i morti fisici sono soltanto la prova tangibile della morte morale di un’intera comunità in balia della paura e la sopraffazione. Il Pubblico ministero è un uomo solo che tenta di non lasciar cadere un processo segnato da prove e documenti spariti (“Questo non è un processo, è un gioco di prestigio!”), da testimoni che rinunciano a chiedere giustizia per i loro morti pur di proteggere i loro vivi, da testimoni terrorizzati fino al suicidio e da testimoni che nulla hanno già da perdere sottomessi al più brutale linciaggio morale.
A insufflare vita a questi ultimi, tra i personaggi più strazianti mai scritti da Fava, sono due forze della natura: il primo, Rosalia Licata (Mariangela Melato), vedova del testimone accidentale di uno dei delitti di Barresi (“Voi dite di volere la giustizia e poi mi impedite di dire la verità! La mafia fa quello che vuole, tutti qui dentro hanno paura di Barresi, anche i giudici hanno paura!”); il secondo, il professor Salemi (Riccardo Cucciolla), una vita colpita dalla morte del suo unico figlio e affondata dopo l’assassinio di suo fratello (Aldo Giuffré), neo sindaco con troppi sogni di giustizia sociale per essere tollerato dai “galantuomini”.
Mi permetta di spiegare perché gioco dieci ore al giorno a carte. E che altro potrei fare nel mio paese? Là non succede niente, solo rancore, delitti, lo squallore, l’immobilità più assoluta. Nel mio paese c’è una statistica terribile: la più alta mortalità infantile d’Italia, ma anche la più alta natalità d’Italia. Il 50% di questi bambini, non appena diventano adulti, emigrano. I migliori noi li esportiamo: per 50.000 lire al mese, ci priviamo di quelli che potrebbero migliorare la Sicilia. Restano i deboli, i malati, i delusi, quelli che si arrangiano per vivere. Non è vero che la miseria aguzza l’ingegno: lo rende più famelico, feroce!

No, “la mafia non sono fenomeni di delinquenza che riguardano piccoli gruppi in lotta tra loro”, è un mostro onnipotente e onnipresente che controlla tutto, compresa la scarcerazione degli imputati (poche novità: Barresi era già stato “nove volte processato e sempre assolto, Eccellenza!”). Tutti, tranne Vacirca (Guido Leontini), ladruncolo di cavalli, mina vagante per i due gruppi, condannato a 20 anni di reclusione, e Giacalone (un Ciccio Ingrassia supremo nel suo primo ruolo drammatico puro), che si toglie la vita in carcere per garantire un futuro ai suoi figli, immobilizzato dalla morsa di quelli che lo strapparono alla miseria in cambio di favori in apparenza innocui.
“Guardatemi tutti, io sono una monnezza, tutti mi possono prendere a calci, sputare in faccia, e io devo tenere la bocca chiusa. Eccellenza, l’ho ammazzato io!”. Sono due capri espiatori nell’incrocio fatale tra povertà, solitudine e ignoranza, garante premuroso del macchinario di omertà e soprusi che permea le strutture e le istituzioni del Paese. “Il progetto della diga è stato approvato e, quando il governo a Roma prende una decisione, anche Crupi deve accettarla, non è più forte del governo”, assicurava il sindaco Salemi poche ore prima di venire freddato con vari colpi di pistola. Esattamente come Fava davanti al teatro Verga di Catania la sera del 5 gennaio 1984.

“Quanto vale la vita di un uomo in questo Paese?”, si chiedeva Rosalia, prima di essere espulsa dall’aula del tribunale. La violenza è una pièce scritta con il maggior rigore processuale, ma anche il pretesto artistico per raccontare una storia che continua a soffocarci: “la violenza ovunque nel mondo, in tutte le sue forme”. “Violenza è non rispettare le leggi, ribellarsi all’autorità, uccidere”, assicura l’avvocato Colonnesi. La risposta del Pubblico ministero è la fotografia di una democrazia compromessa, schiacciata dal “quinto potere” che manovra e sottomette gli altri quattro con una libertà spaventosa, agendo, come la civetta di Sciascia, in piena luce del giorno.
Ma violenza è anche uccidere un uomo giorno per giorno negandogli il lavoro, una casa decente, costringerlo a vivere tutta una vita analfabeta, privarlo della scuola perfino per i figli. Violenza è quando anche i più elementari diritti diventano dei favori da chiedere ai cosiddetti galantuomini. Violenza è costringerlo a votare per un partito che odia, per dei candidati corrotti asserviti ai padroni. Violenza è farti dire sissignore o nossignore a comando, privarlo della sua dignità di essere umano. Questa è la vera violenza perché è la più subdola, la più feroce.
La violenza: quinto potere
Un film di Florestano Vancini, 1971. Italia, Produzioni De Laurentiis. 97′, colore.
Soggetto: tratto dal dramma teatrale “La violenza”, di Giuseppe Fava. Sceneggiatura: Dino Maiuri, Fabio Pittorru, Florestano Vancini, Massimo De Rita, Massimo Felisatti. Interpreti: Aldo Giuffré, Ciccio Ingrassia, Elio Zamuto, Enrico Maria Salerno, Ferruccio De Ceresa, Gastone Moschin, Georges Wilson, Guido Leontini, Julien Guiomar, Mariangela Melato, Mario Adorf, Michele Abruzzo, Mico Cundari, Riccardo Cucciolla, Turi Ferro. Fotografia: Toni Secchi. Montaggio: Tatiana Casini Morigi. Scenografia: Luciano Puccini. Musiche: Ennio Morricone.
Dignità, compromesso civile e capolavori in simbiosi: