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Una macchina sfreccia in Piazza di Spagna, mentre il sole comincia a illuminare Roma. Alla guida, l’antiquario Alfredo Martelli, che rincasa in tempo per rispondere alla telefonata della sua fidanzata: “Sì, sto ancora a letto, sto meglio: ho dormito dieci ore di continuo”. Davanti al portone del palazzo, la polizia controlla il motore: “È ancora caldo”.

Un inizio affascinante per un’opera prima affascinante: è L’assassino (1961), lungometraggio d’esordio di Elio Petri, allora 32enne, che grazie all’incontro con Giuseppe De Santis aveva lasciato il giornalismo per indirizzarsi verso la settima arte. “Il mio unico maestro del cinema è stato Peppe”: prima documentarista e aiuto regista nel suo film-inchiesta Roma, ore 11 (1952) e poi autore di cortometraggi dal taglio neorealista, con l’avvento degli anni ’60 diventò uno dei figli prediletti della nuova generazione di cineasti che voleva raccontare il Paese nella sua multiformità, servendosi della cinepresa come strumento privilegiato di denuncia.
E già ne L’assassino sono presenti alcuni dei temi e dei nomi basilari della sua produzione. “Elio Petri, che magnifico regista! Avvenne con me il suo esordio e diventammo subito amici”. Marcello Mastroianni annoverava il film tra i suoi beniamini e le ragioni di questa squisita scelta sono palesi: nell’oceano di pregi tecnici e artistici dell’opera, uno scrigno di originalità e lucidità spesso oscurato dalla “trilogia della nevrosi” e Todo Modo, spicca la sua interpretazione di Martelli, un perfetto equilibrio tra ragione e follia al centro di un racconto che, trainato da Franz Kafka e Albert Camus, lo pedina durante un’intera giornata.

Ventiquattr’ore di interrogatori condotti dal commissario Palumbo (Salvo Randone) per far luce sull’assassinio di Adalgisa De Matteis (Micheline Presle), amante dell’antiquario -in un crescendo di claustrofobia e smarrimento ispirato a Il processo, protagonista e spettatore ci mettono mezz’ora a scoprire la ragione della detenzione-, a cavallo tra la questura e il luogo del delitto, un lussuoso albergo sulla spiaggia che la signora stava ristrutturando, testimone di molti dei loro incontri, compresa l’ultima notte. “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K.”, cominciava il romanzo di Kafka, “poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”.
Ben al contrario, l’antiquario ha fatto molte, troppe cose. Attraverso la combinazione dei diversi piani temporali, usati da Petri con la precisione di un bisturi, il film ricostruisce il rompicapo della sua vita e, senza perdere l’impalcatura gialla, si apre verso uno studio psicologico del personaggio, dove l’aria de Il processo si fonde magistralmente non soltanto con sua sorella La metamorfosi, ma anche con il miglior Camus: sottomesso a un giudizio etico che mette a nudo debolezze e mediocrità, il disagio intimo di Martelli tocca vette insopportabili in un gioco di specchi che fruga nella ferita personale e sociale della sua esistenza.

Anzi, “non-esistenza”, perché l’uomo vive immerso in un processo di disumanizzazione che concepisce la vita come un castello di bugie, nel quale le relazioni umane devono semplicemente soddisfare i bisogni personali. Come coltellate morali, i flashback ripercorrono i rapporti di usa e getta con la madre (riecheggia allora un altro incipit, Lo straniero: “Oggi mamma è morta. O ieri, non lo so”), con gli amici (Andrea Checchi, il vedovo De Matteis, doppiamente tradito), con Adalgisa (“Lo so che mi vuoi lasciare. Io ti sono servita solo a tirarti fuori dalla tua baracca: senza di me saresti ancora un robivecchi, il disgraziato che eri e che rimani”).
“Io le sono antipatico, vero?”, chiede l’antiquario a Palumbo, “Quando uno da zero fa carriera, secondo lei, è strano, al giorno d’oggi”. “Ad ogni modo”, risponde il commissario, “non vi dovete preoccupare: io sono obiettivo”, e quando finalmente riesce a individuare il vero assassino, si rivolge ai giornalisti: “Martelli? Un bravo ragazzo”. Sa, però, che si tratta di un uomo tutt’altro che innocente. Come Camus ne La peste, anche Petri ci porta a spasso per una società alle prese con un’epidemia morale che ha distrutto il senso di comunità. E, anche se non ha commesso alcun delitto contemplato nel codice penale, Martelli è, come segnala il regista, “colpevole di disumanità”.

L’assassino è una riflessione brillante sul mutamento sociale che, già dagli ultimi anni ’50, stava vedendo l’ascesa di una generazione di “nuovi ricchi” privi di qualsiasi scrupolo etico e professionale, illustrando, con incredibile anticipo (e preveggenza) sui tempi, non soltanto la disaffezione politica che stroncherà gli anni ’70 (“Sei sempre iscritto al partito? / La politica non la faccio più, mi ha deluso / Però, voti per noi? / Certo!”), ma anche le conseguenze psichiche della confusione d’identità presente nelle società capitalistiche e la necessità di mantenere lo statu quo politico e sociale, anche a discapito delle proprie idee e convinzioni.
A questo punto, è pericoloso chiedere un filo di speranza a un regista visionario e disturbante che non cercò mai scappatoie consolatorie? Sì: a differenza della brutta sorte dello scarafaggio innocente Gregor Samsa, il colpo di scena finale del film ci mostra lo scarafaggio colpevole Martelli un anno dopo gli eventi, cinico e bugiardo più che mai, divenuto amante occasionale di quella che avrebbe dovuto essere sua moglie (Cristina Gajoni), sposatasi nel frattempo con un altro uomo. Perché la metamorfosi è destinata ad affogare in una società che ha banalizzato tutto, facendo della prosperità materiale e l’eccellenza morale due universi inconciliabili.

Perciò, la risata isterica nella quale esplode alla fine del film, mentre discute sul prezzo di una macchina (“Ricorda che stai parlando con l’assassino!”), preannuncia tutte le nevrosi della società moderna che Petri esplorerà con mano maestra durante la sua carriera. I censori non gradirono il modo in cui L’assassino dipingeva la forza pubblica, interessata soltanto a costruire un colpevole di omicidio, e il rapporto dell’individuo con l’autorità. Non potevano nemmeno immaginare cosa avesse in serbo quel ragazzo di via dei Giubbonari, in particolare un capolavoro che comincia proprio con una citazione di Kafka:
Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano.
L’assassino
Un film di Elio Petri, 1961. Italia – Francia, Titanus – S. G. C., 103′, b/n.
Soggetto: Antonio Guerra, Elio Petri. Sceneggiatura: Antonio Guerra, Elio Petri, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile. Interpreti: Andrea Checchi, Cristina Gajoni, Francesco Grandjacquet, Franco Ressel, Lucia Raggi, Marcello Mastroianni, Marco Mariani, Micheline Presle, Paolo Panelli, Salvo Randone, Toni Ucci. Fotografia: Carlo Di Palma. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Scenografia: Carlo Egidi. Musiche: Piero Piccioni.
Dichiarazioni tratte da: Mi ricordo, sì, io mi ricordo (Anna Maria Tatò, 1997), Elio Petri. Appunti su un autore (Federico Bacci, Stefano Leone, Nicola Guarneri, 2005).
“L’egoismo è il sentimento fondamentale della religione della proprietà”: