—
Io divido l’umanità in cinque categorie: ci sono gli uomini veri, i mezzi uomini, gli ominicchi, poi, mi scusi, i ruffiani e, in ultimo, come se non ci fossero, i quacquaracquà. Sono pochissimi gli uomini, i mezzi uomini pochi, già molti di più gli ominicchi: sono come bambini, che si credono grandi. Quanto ai ruffiani, stanno diventando un vero esercito. E, infine, i quacquaracquà, il branco di oche.
Era l’anno 1961 quando Einaudi pubblicò Il giorno della civetta e le cinque categorie umane scandite da don Mariano Arena, capomafia di S., bussarono alle porte dell’immaginario collettivo italiano per la prima volta. In questo racconto dal titolo shakespeariano, Leonardo Sciascia si butta a capofitto nel tema della mafia e, prendendo spunto dall’omicidio del sindacalista Accursio Miraglia, morto per mano di Cosa Nostra a Sciacca nel 1947, scrive quella che è, assieme a La violenza di Giuseppe Fava, una delle più belle ed esaurienti lezioni sul dilagare indisturbato della ragnatela malavitosa, dalle piccole realtà provinciali ai piani alti dei palazzi del potere capitolini.


Nel 1968 arrivò la trasposizione filmica del testo, con Damiano Damiani dietro la macchina da presa, e da allora la classifica riecheggia nelle nostre menti con la voce di Corrado Gaipa e la sembianza di Lee J. Cobb. Fu il primo di una lunga serie di incontri tra il doppiatore palermitano e il gigante newyorchese (indimenticabili anche ne L’esorcista), una fusione straordinaria -come quelle tra Paolo Ferrari e Franco Citti in Accattone o Nando Gazzolo e Gian Maria Volontè nella “trilogia del dollaro”– per dare vita a “una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà”.
Un profilo mafioso talmente perfetto che il boss di Partinico fece demolire Palazzo Scalia, simbolo del film: oggi c’è una scatola di cemento nel luogo dove si ergeva la meravigliosa abitazione ottocentesca dalla quale Arena controllava, binocolo in mano, la vita, morte e miracoli dei suoi concittadini e dalle quale mise in moto il macchinario di manovre per cambiare il movente del “delitto Colasberna”, che apre la narrazione: a uccidere l’impresario edile -caduto sotto quattro colpi di fucile per essersi rifiutato di collaborare con una ditta collusa con la mafia- sarebbe stato il latitante Tano Nicolosi, per i sempre gettonati motivi passionali.
Ma la ricostruzione si schianta contro l’integrità del capitano dei carabinieri Bellodi (Franco Nero): “Che cosa si trova a buon mercato in Sicilia? L’onore, maresciallo, è il toccasana di tutto. Perciò cerchiamo subito questo Nicolosi e togliamogli le corna dalla fronte”; convinto che sia stato ucciso in quanto testimone scomodo del crimine, comincia a dipanare la matassa di interessi attorno alla costruzione di una nuova strada nel paese. “Colasberna non era amico degli altri imprenditori, lavorava solo, onestamente, senza imbroglio. I furti dei soldi dello Stato vanno fatti in compagnia e lui non si assoggettava”.


Una discesa negli inferi mafiosi che finisce per diventare un’altra felicissima maglia della catena di adattamenti cinematografici del verbo di Sciascia, coronata dal capolavoro maledetto Todo Modo (1976). Assieme a Ugo Pirro, storico collaboratore di Elio Petri, Damiani cura una sceneggiatura salda che setaccia gli angoli del gioiello di Sciascia e, sostenuto da un cast superbo, fa respirare allo spettatore la nebbia di omertà che avvolge una scacchiera con due re, uno dei quali ha a disposizione tutti i pedoni, disposti a qualsiasi cosa pur di non cadere dalla sua grazia: “I santi non si toccano”.
“Il vostro nome non l’abbiamo fatto, ci siamo spennati tra noi”, dice Zicchinetta (Tano Cimarosa), autore materiale dell’assassinio. E, assieme a lui, il costruttore Pizzuco (Nehemiah Persoff), “una potenza qui”, con un cognato deputato e “una fedina penale lunga come la strada che costruisce”, e il confidente Parrinieddu (Serge Reggiani), questa volta consapevole di camminare su sabbie troppo mobili: “Il tradimento finisce di essere una necessità e diventa un’infamia. Io, signor capitano, tradisco per vocazione: tradisco stanotte la mafia e domani i carabinieri. La bilancia, un po’ per uno”.
E, in mezzo al vortice, Rosa (Claudia Cardinale), la moglie dell’ago nel pagliaio siciliano Nicolosi, Eva infangata, senza fidarsi di nessuno, tra la casa di don Mariano e un gioco di mezze verità con quel giovane capitano (“Lascia che la gente s’impicchi, Rosa! Quello che dici qui dentro, se non lo dici fuori, non conta!”), ex partigiano, in difesa disperata della legge di una Repubblica che lui stesso ha contribuito a creare, ma che, in fin dei conti, sarà sempre un estraneo. “Capitano, ma dove vivo io? Io vivo in mezzo alla gente! E, quando cammino in mezzo alla gente, questo vestito è come se non ce l’avessi. Nuda mi sento, nuda!”.


S. è il palcoscenico di una tragedia greca. “Ci avrei giurato che finiva così”, dice il maresciallo quando viene ritrovato il cadavere di Colasberna, “c’è gente che puzza di cadavere anche prima di morire. Voleva vivere senza amici ed eccolo lì”. Ma, nella tempesta perfetta di voti certi e destini apparentemente ineluttabili, Bellodi sfida il fato e ammanetta Arena, soltanto, però, per constatare che davanti a lui c’è il Padreterno che copre i buchi di uno Stato spesso latitante. “La mafia riusciva a darti come favore”, le parole dello scrittore Davide Cerullo prendono più senso che mai, “quello che lo Stato avrebbe dovuto darti come diritto”.
Questo è il punto, pensò il capitano, su cui far leva. È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui: non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Ed è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti costituzionali. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America.
Il giorno della civetta è uno schiaffo morale brillante, tagliente, impellente, alla responsabilità collettiva nella lotta contro la malavita. “Perciò anche se mi incastra, capitano, è un uomo”. Ma il miraggio dura poco e la ragnatela di fili d’oro, come la definirà lo scrittore in Todo Modo, dai ministeri alla stampa, costruisce un alibi perfetto a Zicchinetta e l’indagine, come Palazzo Scalia, viene rasa al suolo: “Persone incensurate, insospettabili, per censo e per cultura rispettabilissime, testimoniarono che si trovava a settantasei chilometri dal luogo del delitto”. La civetta dell’Enrico VI non ha più bisogno di agire di notte: è libera e ben difesa anche in piena luce.


“Lasciate un filo di speranza alla gente”, aveva chiesto un giovanissimo Ninni Cassarà allo scrittore durante le riprese del film. Lui, come il generale Renato Candida, modello nella creazione di Bellodi, avevano capito presto che bisogna “essere presuntuosi” e cercare instancabilmente la verità. Perciò una sola idea rimbomba nella testa del capitano durante il trasferimento nella natia Parma: quella Sicilia “metà illuminismo, metà mistero”, come definiva Damiani l’isola raccontata da Sciascia, si è impossessata di lui, come l’amore per la verità. “Tornerò e mi ci romperò la testa, disse a voce alta”.
Il giorno della civetta
Un film di Damiano Damiani, 1968. Italia – Francia, Panda Cinematografica – Les Films Corona. 104′, colore.
Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura: Damiano Damiani, Ugo Pirro. Interpreti: Claudia Cardinale, Ennio Balbo, Franco Nero, Fred Coplan, Giovanni Pallavicino, Lee J. Cobb, Nehemiah Persoff, Serge Reggiani, Tano Cimarosa, Ugo D’Alessio. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Sergio Canevari. Musiche: Giovanni Fusco.
Quanto vale la vita di un uomo in questo Paese?