Poche settimane dopo la strage di Piazza Fontana, che il 12 dicembre del 1969 aveva lasciato 17 morti e quasi un centinaio di feriti nel cuore di Milano, Elio Petri gira Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli, amara controinchiesta sulla versione ufficiale -anzi, versioni- del suicidio del ferroviere anarchico, coinvolto nelle indagini e “caduto” dalla finestra della questura di via Fatebenefratelli. Uno dei più brillanti esempi di cinema d’impegno civile per chiudere idealmente il decennio e la prima tappa della sua carriera, un connubio intimistico fra il neorealismo, l’esistenzialismo francese e la Nouvelle vague, che racconta la società attraverso una precisa (e preziosa) analisi psicologica dei personaggi.

Con gli “anni di piombo” comincia un periodo di furore politico per l’uomo e il regista, durante il quale si allontana dalla sinistra parlamentare e punta la cinepresa sui soggetti più rappresentativi della politica, aggiungendo all’influenza kafkiana altre due bombe ad orologeria: l’alito brechtiano e quello del Teatro della crudeltà. La carica diagnostica targata Petri si articola adesso attraverso un’estremizzazione del linguaggio cinematografico che trova compiuta espressione nella “trilogia della nevrosi”, tra il 1970 ed il 1973: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in Paradiso, La proprietà non è più un furto. Ma non solo: tre anni dopo arriva la quarta e definitiva parete del suo affresco italiano, Todo Modo.

Marcello Mastroianni e Gian Maria Volontè in Todo Modo. Elio Petri, 1976.

Nell’ultimo periodo della mia vita ho fatto film sgradevoli in una società che ormai chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno: se l’impegno è gradevole, e quindi non dà fastidio a nessuno, lo si accetta. Altrimenti, no. I miei film, al contrario, oltrepassano il segno della sgradevolezza. Perché faccio film così? Evidentemente è per via di una netta sensazione di essere arrivato al punto in cui mi pare che tutte le premesse che c’erano quando io ero ragazzo si siano proprio vanificate.

Petri non cerca scappatoie consolatorie: ogni suo film è una parte del nervo complessivo della società che si può toccare e che può (e deve) toccare. Perciò, dopo il magnifico A ciascuno il suo (1967), nel 1976 si addentra di nuovo nell’universo letterario di Leonardo Sciascia e adatta liberamente l’opera che lo scrittore siciliano aveva dato alle stampe un paio di anni prima, un piccolo gioiello spartiacque rispetto ai precedenti romanzi-saggi: Todo Modo e la sua feroce ironia sono un rinnovamento della farsa politica attraverso i topoi del genere poliziesco fatto su misura per Petri, che sceglie un’ambientazione pressoché apocalittica per immergersi negli abissi corrotti dei vertici del potere umano e divino.

Una cinepresa claustrofobica rimpiazza il pittore-narratore di Sciascia e pedina i più influenti rappresentanti delle istituzioni e dei partiti egemonici, della Chiesa, della banca e dell’industria, i quali, sul trasfondo di una crisi di controllo sociale, approfittano di un raduno in un albergo-eremo per mettere in moto una giostra di assassini. Perché in Todo Modo il crimine è il protagonista principale, il personaggio che mostra dall’inizio della narrazione la vera natura dei vincoli che supportano e preservano le strutture del potere, allora, oggi e sempre: “Quella che si suole chiamare la classe dirigente, che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro”.

Marcello Mastroianni, Gian Maria Volontè e Ciccio Ingrassia in Todo Modo. Elio Petri, 1976.

Zafer è il castello della Morte rossa di Edgar Allan Poe, dove viene messa in scena un’allegoria grottesca della fine per autoeliminazione di un partito eterodiretto dalla Chiesa (e da altre potenze), travolto dalla necessità di arrivare al sacrificio supremo per scongiurare la crisi. E il capro espiatorio è lui, Gian Maria Volontè, M, il Presidente, modellato sul fisico e il linguaggio di Aldo Moro. “La somiglianza tra Gian Maria e Moro era tale”, ricorderà Paola Petri, “che i primi tre giorni di riprese furono interamente rigirati”. Un corpo evanescente, flagellato dai demoni della carne e del potere: “Confondo sempre la destra con la sinistra”. Non c’è niente da fare: “Vedendolo capirete cosa vuol dire il mestiere dell’attore”. Parola di Giuliano Montaldo.

E, assieme a Sciascia, Petri e Volontè, la quarta porta dell’illustre tetrapilo, Marcello Mastroianni, già protagonista dell’esordio del regista, L’assassino, nel 1960. In quest’occasione è don Gaetano, “pretaccio forte, tremendo, diabolico”, che, come indica Sciascia, sembra avere il dono dell’ubiquità e la capacità di sparire nel nulla (“Siamo i morti che seppelliscono i morti”). Un “pretaccio” perturbantemente sensuale, alla guida degli esercizi spirituali nel sottosuolo di Zafer, le cui prediche luciferine strappano lacrime di terrore ai potenti, liberi dalle maschere pubbliche (immensi Ciccio Ingrassia nei panni dell’onorevole masochista Voltrano e Mariangela Melato come Giacinta, la moglie di M). Lui è l’occhio orwelliano in un ritiro dove tutto viene ripreso dalle telecamere perché:

Il trionfo della Chiesa nei secoli è dovuto ai preti cattivi: la loro malvagità serve a confermare e a esaltare la santità (…). Qual è il peccato di un uomo del potere? Guardate le vostre mani: il potere che esse stringono le sta bruciando! Il peccato non esiste se non c’è il potere ad esercitarlo. Voi avete il potere e non ponete limiti al vostro potere e al peccato, ma quanto tempo credete che vi rimanga? Il potere uccide! Ha già ucciso.

Gian Maria Volontè e Franco Citti in Todo Modo. Elio Petri, 1976.

Scomodo. Tagliente. Maledettamente geniale. Un esplicito atto di accusa nei confronti della Democrazia cristiana, “il processo che Pasolini voleva”, nelle parole di Sciascia, arrivato in pieno “compromesso storico”: dalla stampa centrista riceve l’ostilità più pungente; dalla sinistra parlamentare, il gelo. Todo Modo è ritirato dalle sale dopo un mese di programmazione e, quando il 9 maggio del 1978 il cadavere del presidente appare in via Caetani, la sua carica eversiva e profetica diventa insopportabile. È la psicostasia di un’intera epoca che ancora oggi, circondati da traditori morali e pseudo-intellettuali in equilibrio impossibile sul filo del rasoio ideologico, ci fa venire in mente la domanda che Marcello si poneva in Mi ricordo, sì, io mi ricordo (Anna Maria Tatò, 1997):

Un documento importantissimo che curiosamente, mica tanto curiosamente, non è mai stato riproposto. Non gli fa piacere che si ripropongano questi temi?


Todo Modo

Un film di Elio Petri, 1976. Italia, Cinevera. 125′, b/n.

Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura: Berto Pelosso, Elio Petri. Interpreti: Cesare Gelli, Ciccio Ingrassia, Franco Citti, Gian Maria Volontè, Marcello Mastroianni, Mariangela Melato, Michel Piccoli, Renato Salvatori, Tino Scotti. Fotografia: Luigi Kuveiller. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Scenografia: Dante Ferretti. Musiche: Ennio Morricone.

Più Volontè, più Sciascia:

PORTE APERTE, PORTE CHIUSE