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All’indomani della morte di Bruno Ganz, nei mezzi di comunicazione di massa si estesero a macchia d’olio titoli come “quello che divenne famoso grazie al video-parodia di Hitler” o “eterno Hitler”, con tanto di omaggio commosso (si fa per dire) “con i migliori meme”. Sipario.
La sua fine, usando l’espressione coniata da Tiziano Terzani, non ebbe niente a che vedere con il nostro inizio, bensì con la constatazione di vivere in un tempo mediocre, scandalosamente mediocre. Perché quella interpretazione non fu, non è, che un’altra delle sue meraviglie, un’altra vertebra nella spina dorsale del cinema europeo che fu, è, Bruno Ganz. Una carriera sulla linea mediana dei più importanti nomi e movimenti della settima arte tedesca ed europea; anzi, alzando la scommessa, senza paura di perderla, possiamo dire che l’attore svizzero fu, è, l’Europa sul grande schermo (e sul palcoscenico).

Principe del teatro tedesco degli anni 60 e 70, nel celebre Schaubühne di Peter Stein, e identikit del Neuer Deutscher Film, diventò il flâneur più attento, tenero e affascinante di un continente in lotta perenne contro i propri fantasmi. Un uomo solo in viaggio verso il cuore delle tenebre: quelle ataviche, popolate da creature tormentate dalla paura della solitudine, faccia a faccia con Nosferatu (Nosferatu: Phantom der Nacht, Werner Herzog, 1979), ma anche quelle che arrivano “con una faccia sorridente”, come vengono definite da Oliver Hirschbiegel, regista de La caduta (Der Untergang, 2004).
E non possiamo pensare a una definizione migliore dell’ascesa del totalitarismo negli anni 30. Eppure, i critici che cercarono di sollevare scadenti polemiche, parlando di un ruolo “controverso” che avrebbe “umanizzato” la figura di Hitler, forse sono ancora convinti che, ad azionare il macchinario dell’orrore del nazismo, fosse un ente dell’aldilà e non dei semplici essere umani. Si tratta di uno dei più straordinari studi del male mai visti su pellicola, un’interpretazione antica, tangibile, tellurica, omicida. E umana, sì, troppo umana, e perciò veramente spaventosa. E inarrivabile.

Per l’Europa post-bellica ci portò a spasso, attraverso uomini dalle radici sfilacciate, che, come Jonathan Zimmermann ne L’amico americano (Der Amerikanische Freund, Wim Wenders, 1977), si affacciano al punto pubblico e privato di non ritorno, in un mondo omogeneizzato, vigilato, assassino. Tempi con Il coltello in testa (Messer im Kopf, Reinhard Hauff, 1978), in cui la fuga diventa legittima difesa, Tempi di luce declinante (In Zeiten des abnehmenden Lichts, Matti Geschonneck, 2017), quelli di Wilhelm Powileit, esiliato durante il nazismo e coperto di grigio negli ultimi giorni della Germania Est.
Perciò Paul non trovava pace nemmeno Nella città bianca (Dans la ville blanche, Alain Tanner, 1982) e le risposte corrette erano biglietti di sola andata. Perché il corpo di Bruno è stato quello delle frontiere, esterne e interne, mobili come le sabbie, da Lisbona al confine greco-albanese, sempre in cerca di anime da salvare che valessero L’eternità e un giorno (Mia eoniotita kai mia mera, Theo Angelopoulos, 1998). A volte, persino la propria. Lui, l’europeo errante che setacciò La polvere del tempo (I skoni tou hronou, Angelopoulos, 2008), al di là delle bandiere e dei regimi politici, al di là della vita e della morte.

Il nostro Virgilio -letteralmente, ne La casa di Jack (The House That Jack Built, Lars von Trier, 2018), monito e bussola dagli occhi azzurri, dal naso buffo e il sorriso disarmante, che disegnò con mano maestra la geografia sentimentale e intellettuale di un continente ancora oggi allo sbando. Se Ganz, l’attore, è stato il bene, il male e tutto ciò che c’è nel mezzo, Bruno, l’uomo, rimase sempre dalla parte della luce. Una presenza saggia e contemplativa, rasserenante e incoraggiante. Una certezza, la più bella di tutte. E, durante i suoi viaggi per perdersi e incontrarsi, gli cascarono dalle tasche due gioielli particolarmente pregiati.
Due diamanti che, come lui, sembrano arrivare da una latitudine sospesa nel tempo. Fernando Girasole, tra Pane e tulipani (Silvio Soldini, 2000), sbarcato a Venezia dall’Islanda, espiando colpe proprie e altrui, e cercando il prezzo esatto della felicità, con modi (e italiano) di altri tempi, pura magia in una favola dove ogni cosa è illuminata da lui. E Damiel, in caduta libera da Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, Wenders, 1987), disposto a sacrificare l’immortalità pur di provare le vertigini dell’amore. L’angelo rischiò. E vinse. Come? A-more, ovvero, ciò che non muore. Immortale, come Bruno Ganz.
A spasso per Venezia con Fernando e Rosalba: