Raf Vallone, Carol Lawrence e Arthur Miller a Brooklyn durante le riprese di Uno sguardo dal ponte (Sidney Lumet, 1962). Fotografia di Inge Morath, 1961 – Magnum.

Questa storia era accaduta e non potevo dimenticarla. Mi sembrò di averla già ascoltata, come un mito greco che risuonasse nella mia mente. Difatti, l’ho scritta per scoprirne i sensi reconditi, ma non li ho ancora scoperti tutti, tanto che provo un certo stupore, una sensazione di attesa che penso derivi dal fatto di essermi imbattuto in un racconto mitico.

— Arthur Miller. “Miller Shorts: A View from the Bridge” (BBC, 2003).

Nel 1955 il nome di Arthur Miller era ricorrente sui giornali, spesso nel mirino della “paura rossa” di Joseph McCarthy e ancor più spesso accanto a quello di Norma Jeane. Era il prezzo da pagare da parte del drammaturgo più brillante e popolare del momento, campione mondiale di affondamento di coltello nelle piaghe del sistema. Il 29 settembre di quell’anno andò in scena a Broadway per la prima volta Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge), un altro frutto eccezionale del meticoloso modus operandi di Miller, che nessun terremoto esterno riuscì mai a modificare.

Italia, a est di Brooklyn

Una gestazione “lunga e travagliata”, con tanto di soggiorno italiano e di conoscenza diretta dei bassifondi portuali di New York. Il risultato, basato su un fatto di cronaca, è la storia di Eddie Carbone (un immenso Raf Vallone nella trasposizione filmica di Sidney Lumet nel 1962), scaricatore di porto siciliano, inquilino di un condominio a Brooklyn, assieme alla moglie, Beatrice (Maureen Stapleton), e alla nipote, Catherine (Carol Lawrence), verso la quale nutre un morboso desiderio (anche) di protezione. Una calma apparente che l’arrivo dei cugini Marco (Raymond Pellegrin) e Rodolfo (Jean Sorel) -imbottito di sogni di gloria, fiamma della “sua” Katie- scombussolerà fatalmente.

Sulle loro orme, Miller ripercorre alcuni topoi già presenti nella Morte di un commesso viaggiatore (1949) -la necessità di (ri)scoprirsi nell’altro, di trovare il proprio luogo nel mondo, di riecheggiare nell’eternità-, ma con due variabili: la sfera emotiva e il momento storico in cui l’opera venne concepita. Se quella di Willy Loman era la storia di amore tra un padre e un figlio, adesso l’autore alza la scommessa e fa scendere in campo “l’altro”, letteralmente, in un perverso (e straordinario) gioco di matriosche che esplodono dentro di Eddie, provocando un’onda d’urto che, però, travolge tutta la comunità.

Carol Lawrence, Maureen Stapleton e Raf Vallone in Uno sguardo dal ponte. Sidney Lumet, 1962.

Perché il dado del suo destino era già stato lanciato e Miller lo evidenzia in maniera magistrale attraverso due simboli: l’avvocato Alfieri (Morris Carnovsky) -come nelle tragedie greche, narratore e coro, nonché “ponte” tra i due mondi- e la cabina telefonica, sempre presente in scena, dalla quale Eddie finisce per denunciare i cugini all’ufficio immigrazione, soccombendo sotto il perpetuo senso di estraniamento e smarrimento di chi, al tempo stesso, non è americano, anche se risiede legalmente nel Paese, e fa fatica a riconoscere le proprie radici. Eddie è l’altro per molti, Marco e Rodolfo sono gli altri per lui.

Non c’è scampo per gli eroi tragici. Nonostante tutto, Rodolfo avrebbe potuto ottenere la cittadinanza dopo il matrimonio con Catherine e Marco sarebbe soltanto (si fa per dire) stato rimpatriato, ma per lui -nella mente di Eddie, un modello di mascolinità e di impegno, di fronte alle velleità artistiche di Rodolfo- ammazzare il delatore che “ha tolto il pane dalla bocca ai miei figli” è una questione d’onore. “Promettere di non ammazzare non è contro l’onore”, gli ricorda Alfieri. “Tutta la legge non sta dentro un libro”. Eddie lo sa e aspetta in casa l’arrivo di Marco. E viene ucciso dalla sua stessa arma.

Arthur, Elia e gli altri

Uno sguardo dal ponte è scomodo e non venne accolto con il clamore delle opere precedenti del drammaturgo newyorchese, che nei mesi successivi fece alcune correzioni al testo originale, compresa l’attuale divisione in due atti. Erano i tempi del “sogno americano” e i tempi in cui molti figli d’Italia, usando le parole di Franco Franchi, “davano del tu alla fame”. La “rivoluzionaria” tesi di Miller, che presenta gli immigrati, “gli altri”, come esseri umani, senza sconti, nel bene e nel male, ha appena compiuto 65 anni (un soffio di vento in termini storici) e l’ha fatto conservando tutta la sua attualità.

E diciamo “rivoluzionaria” con evidente ironia, anche se oggi sembra che ci sia la necessità di ricordarlo spesso. Perché anche il destino di un Paese dipende dai volubili giri della ruota della fortuna. La tragedia personale di Eddie diventa universale perché è universale, è la voce, adesso come allora, di tutti i cittadini di seconda che vedono fatalmente condizionata la loro condotta, i loro rapporti familiari e affettivi, il loro senso etico. È la storia dell’emarginazione sociale, della lotta tra la legge personale e quella dello Stato, dello scontro tra le diverse culture e tradizioni. Dei vicoli ciechi della condizione umana.

Raf Vallone in Uno sguardo dal ponte. Sidney Lumet, 1962.

Ma non finisce qui. Erano anche i tempi della guerra fredda e della nuova “caccia alle streghe” che segnò in modo indelebile la società americana, lasciandola sul filo del rasoio della paura, della demagogia e della paranoia. Ancora una volta, troppo attuale. Miller fu uno di quelli che, chiamati a fare delazione dichiarare davanti al comitato sulle attività anti americane, non vacillarono e ne pagarono le conseguenze. Tra quelli che claudicarono, invece, c’era l’amico Elia Kazan, con il quale aveva iniziato una sceneggiatura, poi abbandonata, nei primi anni 50. L’argomento? I bassifondi portuali di New York.

Da quegli appunti, Kazan ne trasse Fronte del porto (On the Waterfront, 1954); Miller, Uno sguardo dal ponte. Ma, se il primo è un’arringa a favore della delazione, il secondo non giudica, non condanna: tratta di approfondire le ragioni di Eddie, mettendo il lettore / spettatore di fronte a una condotta censurabile, ma che difficilmente può condannare senza ambagi. La chiusura è una lama: “In genere, ormai, da noi si osserva la legge, e io non posso che approvare” (Alfieri). Perciò, sì, Uno sguardo dal ponte è scomodo, a tratti, molto scomodo, ma anche intelligente, appassionante, preveggente. Imprescindibile.


Uno sguardo dal ponte

Un film di Sidney Lumet, 1962. Italia – Francia, Transcontinental Films. 110′, b/n.

Soggetto: Arthur Miller. Sceneggiatura: Norman Rosten. Interpreti: Carol Lawrence, Jean Sorel, Maureen Stapleton, Mickey Knox, Morris Carnovsky, Raf Vallone, Raymond Pellegrin, Vincent Gardenia. Fotografia: Michel Kelber. Montaggio: Françoise Javet. Scenografia: Jacques Saulnier. Musiche: Maurice Leroux.

Raf Vallone e le macerie del dopoguerra:

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