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Quando “I sette fratelli Cervi” uscì in sala nel tumultuoso 1968, soltanto un libro aveva raccolto il martirio partigiano dei giovani contadini: le memorie di Alcide Cervi, una vita spesa a custodire il testimonio dei suoi figli e di Quarto Camurri, fucilati per mano fascista nel poligono di tiro di Reggio Emilia il 28 dicembre 1943.

Se i nomi di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore continuano a fiammeggiare nell’immaginario collettivo quasi ottant’anni dopo la loro uccisione, il merito va alla dignità inarrestabile di papà Cervi e anche al film di Gianni Puccini, sostenuto dall’impegno morale e materiale del PCI, che capì la potenza popolare del cinema per raccontare uno degli episodi più eroici e atroci della storia della Resistenza. Inoltre, I sette fratelli Cervi diventò l’inaspettato testamento artistico di un regista poliedrico e garbato, nonché sceneggiatore audace del neorealismo e del post-neorealismo, mai abbastanza ricordato.
Puccini, che morì poche settimane dopo la fine delle riprese, costruisce nella sua opera più ambiziosa una rievocazione estremamente sincera ed emotiva, mai retorica, delle vicende umane e politiche della famiglia, un esercizio di compromesso civile che contò con la massiccia partecipazione della popolazione di Reggio Emilia, compresa la sequenza dello sciopero dei lavoratori, dove centinaia di comparse si misero agli ordini di un allora giovanissimo aiuto regista, Gianni Amelio, e Gian Maria Volontè, che nel 1990 si ritrovarono in un altro esempio di cinema alla ricerca instancabile della dignità umana: Porte aperte.

È proprio il risveglio della coscienza politica in Aldo Cervi (Volontè) il filo rosso della storia, iniziato in carcere, a contatto con alcuni membri del Partito comunista (Serge Reggiani), e poi esploso grazie alla collaborazione con la famiglia Sarzi (in particolare, Lucia, Lisa Gastoni), impegnata in una campagna antifascista attraverso la loro attività teatrale. Una schiera di attori superba impreziosisce ancor di più una sceneggiatura attenta alla carica psicologica di ogni personaggio, che sa combinare con maestria i diversi livelli spaziali e temporali del racconto, marchi di fabbrica di Puccini già dalla sua irresistibile opera d’esordio, L’impiegato (1959).
Questa schietta identificazione con la causa, evidente sia davanti che dietro la cinepresa, provocò persino la nascita di un forte rapporto di amicizia e compromesso intellettuale e artistico tra Volontè (atteggiamento tutt’altro che scontato nel milanese) e tre dei protagonisti: Don Backy (Agostino), con il quale girò nello stesso anno i Banditi a Milano di Carlo Lizzani, Renzo Montagnani (Ferdinando), accanto a lui nella controinchiesta Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (Elio Petri 1970), e il sempre meraviglioso Riccardo Cucciolla (Gelindo), l’altra metà del monumentale Sacco e Vanzetti (Giuliano Montaldo, 1971).

Nel raccontare la “rivoluzione Cervi”, Puccini smonta qualsiasi impalcatura agiografica e mostra sette uomini alle prese con le loro contraddizioni e speranze, dubbi e paure, tra cui l’insofferenza di una famiglia dalle profonde radici cristiane verso la posizione ufficiale di una buona fetta della Chiesa. Un impegno per la libertà e la democrazia destinato, per la forza della Storia, ad abbracciare la lotta armata contro i nazifascisti, dove si incentra la seconda parte del film. E, a continuazione, la casa e il fienile dati alle fiamme, la detenzione nelle dolorosamente note Carceri dei Servi, la fucilazione all’alba di quel 28 dicembre 1943.
Perché questa rivoluzione oltrepassa un tempo e uno spazio concreti: è figlia del processo di modernizzazione contadina svoltosi dalla fine della Grande guerra, una resistenza etica e morale fatta di comunità e condivisione, solidarietà e sacrificio, in un intenso percorso di formazione ed emancipazione personale. Tracce simbolizzate in alcuni dei passaggi più emozionanti del film, dall’accoglienza dispensata a Verina (Carla Gravina), compagna di Aldo, alla relazione fraterna tra Alcide (Oleg Žakov) e i suoi figli, con i quali va volontariamente in carcere: “Non ti preoccupare”, Alcide guarda Genoeffa (Elsa Albani) negli occhi, “non li lascio soli”.

Una filosofia che non si ferma agli aspetti più intimi, ma permea anche i rapporti collettivi e include la propria casa Cervi, divenuta biblioteca comunale, deposito d’armi, rifugio e centro di resistenza antifascista per partigiani di tutte le nazionalità. Una storia che non è mai individuale, contraria a qualsiasi struttura gerarchizzata e autoritaria, e perciò spesso in contrasto con altri compagni di lotta, che pianificano le azioni e misurano i movimenti in maniera diversa dall’anarchica “Banda Cervi”. “Non possiamo correre troppo. Il tempo lavora per noi”, dice ad Aldo un compagno appena arrivato dalla Francia (Andrea Checchi). “E se lavorasse per loro?”.
Sul verbale dell’esecuzione, un gerarca scrisse: “Sono sette fratelli?”. Otto, con il compagno Quarto, “rei confessi di violenze e aggressioni”, assassinati alle 6:30 del mattino con “discrezione” per risparmiare uno scandalo dalle dimensioni spropositate alla neonata Repubblica di Salò. Di quel tempo che non dava pace ai Cervi, di quei segni da non sottovalutare, parla Primo Levi nella prefazione di Auschwitz (Léon Poliakov, 1968): “Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo”. Che il ricordo dei sacrifici partigiani serva di monito oggi con più forza che mai. Sarebbe sciocco dimenticarli.

I sette fratelli Cervi
Un film di Gianni Puccini, 1968. Italia, Centro Film. 105′, colore.
Soggetto: Bruno Baratti, Gianni Puccini. Sceneggiatura: Bruno Baratti, Cesare Zavattini, Gianni Puccini. Interpreti: Andrea Checchi, Carla Gravina, Don Backy, Duilio Del Prete, Elsa Albani, Gian Maria Volontè, Lisa Gastoni, Oleg Žakov, Renzo Montagnani, Riccardo Cucciolla, Serge Reggiani. Fotografia: Mario Montuori. Montaggio: Amedeo Giomini, Romano Giomini. Musiche: Carlo Rustichelli.
Scopri l’irresistibile esordio di Gianni Puccini dietro la cinepresa: