—
Amelia Bonetti (Giulietta Masina) e Pippo Botticella (Marcello Mastroianni), nomi non troppo -ecco la parola d’ordine- commerciali, in arte “Ginger e Fred”, due ballerini per i quali le luci della ribalta si sono spente più di trent’anni fa. Amelia è diventata un’incantevole vedova di provincia, mamma e nonna, responsabile della ditta familiare; Pippo, un Casanova sul viale del tramonto che vende enciclopedie a rate.
Due strade che si incrociano di nuovo, almeno per qualche ora, in Ed ecco a voi…, show televisivo che vanta una media di ascolti di 25 milioni di spettatori. È difficile immaginare perché siano stati chiamati in causa a fare il pezzo forte del loro repertorio -un numero di tip tap, omaggio alla coppia americana- nella “straordinaria puntata natalizia” condotta da un vecchio trombone (Franco Fabrizi) perennemente commosso davanti alla sfilata di casi umani e fenomeni da baraccone che riempie lo studio. Il tutto, condito da una pubblicità invadente e ipersessualizzata, divette (si fa per dire) incapaci di mettere quattro parole in croce che si chiedono cosa vogliano di più dalla vita i sopraffatti telespettatori.

Ed ecco a voi… Federico Fellini
Non è un caso che la cinepresa di Federico Fellini, innamorata degli spaccati di realtà più predisposti alla spettacolarizzazione, volesse misurarsi con la religione catodica. E non è un caso che questo succedesse mentre si imponeva il modello di “tv spazzatura” che regna ancora quasi incontrastato. Correva l’anno 1985 quando il riminese girò Ginger e Fred, terzultimo film della sua carriera -mancavano all’appello soltanto Intervista e La voce della luna-, una mise-en-scène così (apparentemente) esasperata che Umberto Eco lo anticipò su L’Espresso: “In questa televisione dipinta da Hieronymus Bosch, tutti i bersagli del discorso felliniano avranno buon gioco a dire: Sì, ma noi non siamo proprio così” (2 febbraio 1986).
Il regista immaginava che il peggio stesse per arrivare e dipinse il ritratto preveggente della situazione che si presenta ai nostri occhi schiacciando il tasto del telecomando; oggi come allora, la televisione è il Saturno di Goya, mostro onnipresente e onnipotente che divora la realtà e vomita nei piccoli schermi un bolo stravolto, falsificato, pronto per essere mangiato da uno spettatore che abdica al suo diritto di pensare. Sotto la sua lente, questo microcosmo diventa un soggetto privilegiato che gioca su diversi piani semantici. I più evidenti, già a partire dalla sequenza iniziale, accumulazione e contrapposizione, per accompagnare l’arrivo di Amelia a Termini, trasformata in un incrocio di cerchi danteschi pronto ad accogliere golosi, ladri e lussuriosi.
Da allora, via a un succedersi di scenari e personaggi, di voci, suoni e odori -dalla stazione al pullman, dall’albergo agli studi, con tanto di strade romane pressoché apocalittiche- che spingono e travolgono la protagonista e lo spettatore in una dimensione demenziale. Il setaccio felliniano con cui Ginger e Fred filtra la realtà non costituisce, però, un’esagerazione fine a sé stessa, ma una chiave di volta che sostiene la sua essenza di verità meglio di qualsiasi approccio apertamente realistico. Perché in quella giostra fragorosa e alienante si inserisce la favola del ritrovamento di due anime perse, ognuna a modo suo. “È come se da un po’ di tempo le cose mi guardassero in maniera strana, come se mi volessero salutare: Addio, Pippo…”.

Di ribellioni e fragilità
Un’elegia sullo scorrere del tempo, il racconto di una doppia scoperta. La prima, quella di sapersi parte di una torre di Babele di delirio esibizionistico, che suscita reazioni opposte nella coppia: lo smarrimento indignato e la progressiva delusione di Amelia, i cui parametri piccolo-borghesi saltano in aria dietro le quinte, assieme al mito della televisione; il buffonesco e impotente ribellismo anarchico di Pippo, accanto a “un vero boss della malavita”, guardato con ammirazione dai colleghi di trasmissione (“Ci dobbiamo ribellare a tutto questo perché di fronte all’ingiustizia io avvampo!”). La seconda, quella di dover imparare a gestire le emozioni di due cuori che hanno superato la prova del tempo.
Un filo rosso sottile simboleggiato da un vecchio amico (Totò Mignone) che li porta in un bagno ormai in disuso, in modo che possano vestirsi e provare la performance, evenienza nemmeno presa in considerazione dall’organizzazione. Perché loro hanno una dignità professionale da difendere: “Quando sei nato? E alors, quando il grande Fred ballava tu pisciavi ancora a letto. Voi direte che adesso sono io che mi piscio a letto? Sì, effettivamente, qualche volta mi succede. La prostat…”. Di più, sono gli unici ad averla in quel raduno di sosia, orchestre di nani, tizi che mettono incinta con lo sguardo e frati che levitano. Il passato di gloria viene a galla in un buco coperto da lenzuoli, isolato, un mondo parallelo all’assordante folla del set.
E l’umanità scorre in quella zona franca della vita. Mastroianni e la Masina impersonano il Noli me tangere nei confronti di un sistema ferocemente consumistico. Lezioni di regia, lezioni di recitazione. “Per un attore, la danza è la maniera più straordinaria di esprimersi”, diceva Mastroianni, che rispolvera il tip tap imparato per Ciao, maschio (Marco Ferreri, 1978). Questa carica simbolica esplode quando racconta la storia del ballo -alfabeto morse degli schiavi- e diventa un mare di tenerezza, un uomo che nasconde le sue (troppe) fragilità sotto un’apparenza ridicola: “Mi sono sempre compiaciuto di ironizzare sull’aspetto fisico, quasi annullarlo, se era possibile” (Mi ricordo, sì, io mi ricordo…, Anna Maria Tatò, 1997).

Fantasmi pasoliniani
“Siamo dei fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno”, sussurra Pippo ad Amelia quando un problema tecnico mette a repentaglio l’esito del baraccone catodico. Ma c’è solo un mondo dei vivi, quello di Ginger e Fred. Davanti, il mondo dei morti -una struttura narrativa che evidenzia la mano maestra di Tullio Pinelli-, il quale ha ridotto i 15 minuti “warholiani” a uno spot di 3 minuti (“Signora, si fidi, ci conviene dire l’età, il pubblico è sentimentale, si commuove e applaude”). È la profezia dello spettatore rimbambito al servizio dell’unica fede da professare: il tempio sono gli studi, che proiettano un fascio luminoso “orwelliano” nella camera di Amelia; il pope, il cavalier Fulvio Lombardori, grande fratello, padrone della fattoria umana.
Perciò il termine “profezia” non è una casualità. Anzi, Ginger e Fred è la conferma su pellicola delle parole di Pier Paolo Pasolini nella sua “Sfida ai dirigenti della televisione” sul Corriere della sera il 9 dicembre 1973:
Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto i suoi modelli, che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane (…). Il fascismo non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.
Una devastante ingerenza nella vita culturale italiana che trova il suo culmine nell’eroica donna che è riuscita a vivere un mese senza televisione: “Anch’io non volevo crederci -il conduttore fa fatica a parlare-, eppure questa creatura esiste”. Parlavamo di circo, ma è una realtà diabolica, controllata da un apparecchio che cancella la coscienza individuale e stravolge la memoria collettiva (“Mai più senza televisione, una cosa terribile, non si dovrebbero fare questi esperimenti sulla pelle della povera gente!”). Tra gli spiriti de I clowns e Roma, la lucidità di Fellini, come quella di Orwell e Pasolini, al tempo considerata eccessiva, si rafforza ogni giorno di più nella nostra società dell’immagine che ha mercificato tutto e tutti.
Di fronte alla mutazione antropologica di un intero popolo, forse non ci resta che dare retta al vecchio Pippo:
Amelia, lasciami salire sul palco! A sessanta milioni di italiani io dico tutto: Pe-co-ro-ni, PE-CO-RO-NI! State tutti lì a guardare sempre la televisione? Volete sentire solo la televisione? E allora stasera, sentite me.
Ginger e Fred
Un film di Federico Fellini, 1986. Italia – Francia – Germania, Alberto Grimaldi. 125′, colore.
Soggetto: Federico Fellini, Tonino Guerra. Sceneggiatura: Federico Fellini, Tonino Guerra, Tullio Pinelli. Interpreti: Antoine Saint-John, Barbara Herrera, Danika La Loggia, Elena Magoia, Franco Fabrizi, Friedrich von Ledebur, Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Totò Mignone. Fotografia: Ennio Guarnieri, Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli, Ruggero Mastroianni, Ugo De Rossi. Scenografia: Dante Ferretti. Musiche: Nicola Piovani.
La doppietta di Marcello a Cannes: