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In questo secolo, due sono stati gli italiani a vincere il Premio al miglior attore a Cannes: Elio Germano per La nostra vita (Daniele Luchetti, 2010) e Marcello Fonte per Dogman (Matteo Garrone, 2018).
Se torniamo indietro nel tempo fino al 1946, anno in cui venne celebrato il primo Festival, con il frastuono delle bombe ancora riecheggiando nelle coscienze del mondo, scopriamo che sette furono gli interpreti a incidere i loro nomi sull’ambito Prix d’interprétation masculine: sette attori e otto film che ripercorrono il Novecento in tutte le sue sfaccettature e lo fanno sulle spalle di alcuni dei giganti più prodigiosi della storia del nostro cinema.
Saro Urzì

Nel 1962 Pietro Germi girò Sedotta e abbandonata, secondo pilastro della “trilogia sui costumi”: dopo Divorzio all’italiana (1961), il regista, affiancato da Age e Scarpelli, rimase in terre siciliane ad analizzare l’uso di una legge nata da consuetudini e costumi arcaici -in quest’occasione, il matrimonio riparatore- nel seno di una società sospesa tra schizofrenia e isteria. Il suo cinismo geniale e spietato si tinge di un colore particolarmente grottesco, a tratti desolante, per mettere in scena una tragedia che ha tutto il sapore tellurico del miglior Kaos pirandelliano.
Un portento visivo e ritmico che valse a un immenso Saro Urzì, finalmente in un ruolo da protagonista davanti alla cinepresa dell’amico Germi, il primo Prix italiano del Novecento. Se ne Il ferroviere il suo Gigi era stato un barlume di speranza nella società smarrita del dopoguerra, in Sedotta e abbandonata don Vincenzo Ascalone è una tempesta cieca che precipita nel baratro morale e fisico pur di salvaguardare il sacro dittico -onore e famiglia- sul quale si regge l’altrettanto sacro “ordine sociale”. Perché “una sola ricchezza abbiamo: un nome onorato”.
Marcello Mastroianni

Fu Marcello Mastroianni a firmare la doppietta sulla Promenade de la Croisette. Correva l’anno 1970 quando il primo riconoscimento glielo regalò Oreste Nardi, spasimante disperato e stralunato in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca). La macchina da presa di Ettore Scola cavalca l’onda di Straziami, ma di baci saziami (Dino Risi, 1968) e sublima il melodrammatico triangolo amoroso di tre eroi proletari da giornaletto, nel quale l’orologio targato Age e Scarpelli funziona un’altra volta con una precisione irresistibile.
E, dal divino squattrinato alla maturità più affascinante, sedici anni dopo ritornò vincente a Cannes negli “occhi neri” di Nikita Michalkov (Oci ciornie, 1987). Il regista vedeva Marcello come “una carta bianca su cui scrivere i personaggi” e, sulle orme dei racconti di Anton Čechov, ripercorre i non-ricordi di Romano, un fallimento in carne e ossa che ha rinunciato a tutto pur di adagiarsi nella mediocrità (“Ogni giorno è stato una brutta copia del precedente”), alla ricerca dell’unico essere umano in grado di capovolgere la sua vita. Imprescindibile.
Riccardo Cucciolla

Riccardo Cucciolla è stato una delle creature più luminose del cinema italiano, ma vergognosamente non ebbe e non ha ancora avuto il giusto riconoscimento. Una sorta, seppur minuscola, di rivincita arrivò nel 1971: “Non potrò mai dimenticare i suoi occhi di bambino riservati e pieni di umanità -ricordava Giuliano Montaldo– quando vinse il premio per il mio Sacco e Vanzetti”. Alla casa di produzione, che cercava un nome più pomposo per impersonare Nicola Sacco, il regista e Gian Maria Volontè diedero un ultimatum: o Cucciolla, o nessuno.
E così arrivò il miracolo, un essere dalla bellezza fisica e morale disarmante, il più fragile e indistruttibile in mezzo alla tempesta perfetta. Vederlo assieme a Volontè nei panni dei due anarchici italiani assassinati sulla sedia elettrica nel 1927 fa capire ciò che significa non soltanto il mestiere dell’attore, ma anche la passione civile e la dignità. Un sussulto di rabbia e dolore, ma anche un soffio ardente di speranza: “Quando le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato maledetto, il nome di Nicola Sacco sarà ancora vivo nel cuore della gente”.
Giancarlo Giannini

Solo due anni e un altro anarchico italiano sbarcò trionfante nella cittadina francese: il contadino Antonio Soffiantini (il termine “indimenticabile” viene stretto a Giancarlo Giannini), in missione a Roma per uccidere Mussolini. Lina Wertmüller girò Film d’amore e d’anarchia -ambientato nel 1932, sette anni dopo l’assassinio di Sacco e Vanzetti– nel 1973, quattro dopo la caduta dalla finestra del ferroviere milanese Giuseppe Pinelli. La regista imbeve così ogni fotogramma di ribellione, rabbia e ansia di libertà, in uno dei suoi lavori più straordinari.
Lei, che seppe leggere la coppia Giannini – Mariangela Melato (ovvero, Salomè, prostituta nella “nota casa di tolleranza in via dei Fiori”, rifugio e base logistica per “Tunin”) come nessun altro, setaccia, in quest’occasione con uno stile particolarmente felliniano e grottesco, una storia dove anarchia significa fedeltà e compromesso ideologico e affettivo, un canto a quell’amore che, appena nato, raccoglie in sé un intero universo, nel quale sfidare tutto e tutti è la condizione indispensabile per cambiare il corso della Storia e della propria vita.
Vittorio Gassman

“Lo sai chi sono io? L’undici di picche, una carta che non sta nel mazzo, buona per nessun gioco”. Quando Giovanni Arpino scrisse Il buio e il miele nel 1969, probabilmente non poteva immaginare che, sei anni dopo, il capitano Fausto Consolo avrebbe avuto le sembianze e le movenze di un tale Vittorio Gassman. Un romanzo straordinario che, nelle mani dell’attore e di Dino Risi, diventò un capolavoro cinematografico, Profumo di donna, rivisitato nel 1992 con Al Pacino al posto del “mattatore” e doppiato in italiano da Giancarlo Giannini.
È la cronaca di un viaggio dal buio verso la luce interiore, costellato di dolore e solitudine, faccia a faccia con i demoni dei rimpianti che bloccano con fierezza la porta della propria accettazione fisica e spirituale. E forse l’unico modo di spiegare la smisuratezza di Gassman in questo ruolo sia ricordare che un’altra bestia dell’interpretazione come il newyorchese volle incontrarlo personalmente prima di cominciare le riprese di Scent of a Woman per chiedergli consiglio. E non per caso vinse così il suo unico (sì, incomprensibile) Oscar.
Ugo Tognazzi

Pochi mesi prima di partorire (togliamoci il cappello e anche il cranio) la meraviglia intitolata Amici miei. Atto II, Ugo Tognazzi si calò nei panni di Primo Sparaggiani, un piccolo industriale di origini umili, ex partigiano, che vede nel(l’apparente?) sequestro del figlio la possibilità di salvare il suo caseificio. Ne La tragedia di un uomo ridicolo (1981), Bernardo Bertolucci abbandonò la grandiloquenza di Novecento (1978) e indirizzò la sua lente verso la microstoria di una borghesia intrappolata nella morsa delle incertezze economiche e ideologiche.
“Una volta per i boschi ci andavo per funghi o a fare l’amore; oggi invece in Italia è del tutto normale camminare tra i castagni con un miliardo in contanti”. Il film strizza l’occhio al panorama sociopolitico italiano del momento e, sulle spalle di un Tognazzi che (poche novità) fa saltare in aria lo schermo ad ogni sguardo, articola un’amara riflessione sulla meschinità dietro molti rapporti familiari e una denuncia della mediocrità morale e intellettuale di una borghesia che ha rinunciato a qualsiasi compromesso per diventare ciò che aveva sempre odiato.
Gian Maria Volontè

È quasi naturale che ci siano dei gioielli nascosti nelle pieghe di una filmografia come quella di Gian Maria Volontè e uno di essi è La morte di Mario Ricci (1983), di Claude Goretta, una sceneggiatura ispirata alle vicende del regista e di suo fratello, Jean-Pierre, reporter di guerra. Il ruolo del giornalista Bernard Fontana, coinvolto inaspettatamente nell’investigazione della morte di un lavoratore italiano in un paesino svizzero, significò per l’attore “un viaggio immobile all’interno di un personaggio che ha coinciso con quello che sono io oggi”.
Dopo la gloriosa stagione del cinema politico, aveva dovuto affrontare le sofferenze della malattia e l’improvvisa incapacità del cinema italiano di gestire la sua immensità artistica ed etica. Ne La mort de Mario Ricci, personaggio e attore compiono un percorso di espiazione e analisi sul valore del compromesso personale e professionale, trovando “la sua serenità, un suo piacere di vivere, come me: guardando, osservando, riflettendo”. Un altro Prix italiano che è una lezione di vita e di cinema. Ancora una volta, Gian Maria Volontè.
Il miracolo di Sacco e Vanzetti: