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Bistrattato, incompreso, sottovalutato, quando non direttamente ignorato: Il bidone (1955), secondo episodio della “trilogia della salvezza e della grazia” di Federico Fellini, tra La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957), è ancora oggi il reo eccellente nei Piombi di una delle carriere registiche più sfavillanti della storia del cinema.

“Dove esistono due uomini, si nasconde un bidonista”, diceva Federico. Il suo “bidone” ha pagato a caro prezzo l’ingrata condizione di fratello mezzano: all’epoca, perché nato all’ombra della luce de La strada, primo Oscar al miglior film “in lingua straniera”; col senno di poi, perché schiacciato tra due colonne portanti della settima arte italiana. Al di là, però, delle sempre ingiuste graduatorie, Il bidone è oggettivamente un film magnifico, in svantaggio nella lotta per uno dei posti d’onore dell’universo felliniano già dal momento della sua concezione: il quarto impegno registico del riminese, nonostante gli allori, fece fatica persino a trovare un produttore.
Dino De Laurentiis si scordò del coraggio dimostrato pochi mesi prima, quando aveva imboccato quella “strada” rifiutata da tutti, e rimase spaventato dalla sterzata che Fellini, Ennio Flaiano e Tullio Pinelli avevano dato al nuovo progetto, un incrocio tra essa e I vitelloni (1953) senza traccia alcuna di ironia, privo di qualsiasi lievità: durante il dopoguerra, tre bidonisti -Augusto (Broderick Crawford), Picasso (Richard Basehart) e Roberto (Franco Fabrizi)- percorrono Roma e dintorni inscenando truffe per alleggerire le oramai fameliche tasche di proletari e contadini, fino all’incontro con un collega “riabilitato” che li mette di fronte ai loro fantasmi.
L’ispirazione diretta, come spesso accade al regista, è venuta dai racconti conviviali di un vecchio gabbamondo incontrato in una trattoria di Ovindoli durante le riprese de La strada, e poi dalle confidenze dell’amico Eugenio Ricci, detto Lupaccio, il tipo che nel 1940 avrebbe spedito il giovane Fellini a Cinecittà per vendere un brillante falso ad Assia Noris o a Osvaldo Valenti.
— Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p. 166.
Per mettere su pellicola questa piccola grande storia tratta dalle tante piccole grandi storie che gli erano state raccontate, Fellini incassò un no dietro l’altro, fino al sì di Goffredo Lombardo, convinto di poter puntare al Leone d’oro; di progetti rischiosi, la Titanus ne sapeva qualcosa: aveva sfornato Roma ore 11 (Giuseppe De Santis, 1952) e Il cappotto (Alberto Lattuada, 1952). Così, Il bidone, girato tra aprile e luglio nella Capitale e nei castelli romani, venne montato in fretta e furia –Giuseppe Vari e Mario Serandrei lavorarono su due moviole contemporaneamente, Nino Rota si lanciò in una corsa musicale contro l’orologio- per arrivare in tempo a Venezia.
E i cavalieri fecero l’impresa. Il film fu presentato il 9 settembre, penultimo giorno della Mostra, ma l’esperienza risultò disastrosa. Federico, già turbato dai tagli che aveva subito la sua creatura in sede di montaggio –“La prima versione aveva una lunghezza conturbante”, ricordava Kezich, “quattromila seicento metri”-, si trovò di fronte non soltanto al riaccendersi delle polemiche con i difensori di Luchino Visconti, ancora affranti per il mancato riconoscimento a Senso nella precedente edizione, ma anche a una valanga di pettegolezzi riguardo una presunta tresca tra Giulietta Masina e Basehart, allora marito di Valentina Cortese.
Una caterva di critici, ansiosi per dimostrare che La strada era stato un miraggio, macellò questa storia amara, spiazzante, “non felliniana”. Sì, curiosamente la stessa critica che, fino a quel momento, aveva accusato Fellini di fare sempre lo stesso film. Lombardo, terrorizzato, diede a Il bidone un’ulteriore sforbiciata -più di 120 inquadrature- prima dell’uscita in sala e stampò persino un opuscolo in difesa dell’opera. Ma la dritta via era ormai smarrita e, al disastro al botteghino patrio, si aggiunse un’allentata distribuzione internazionale. Una sola voce, affascinata da quanto visto al Lido, si alzò fuori dal coro: quella di un 23enne chiamato François Truffaut.
Tre anni fa, la Cineteca di Bologna e il suo laboratorio “L’immagine ritrovata”, The Film Foundation e la propria Titanus portarono al Festival di Berlino il restauro de Il bidone, recuperando la versione più simile possibile a quella proiettata a Venezia. Un lavoro eccezionale che lascia poco spazio ai dubbi. Federico concepì e filmò Il bidone come una storia di ampio respiro e, nonostante la pioggia di forbici, la prima parte mantiene l’equilibrio narrativo tra i protagonisti: Augusto, “io sono monsieur bidone, ho girato il mondo fregando TUTTI”, Roberto, dongiovanni ebbro di sogni di gloria musicali, e i il buon Picasso, pittore, marito di Iris (Masina), padre di Silvana.
Un’impostazione corale su misura per la complicità della coppia Basehart / Masina, che rispecchiano tutto l’incanto di Gelsomina e il Matto ne La strada– e per l’estro irresistibile di Fabrizi. Nemmeno l’attore piacentino scappò alla “maledetta” tempesta perfetta de Il bidone: durante le riprese nel luna park di Marino, la porta di una giostra centrifuga cedette e Franco cadde, fratturandosi il setto nasale. Una scena oggi persa. “Sono stato sbattuto fuori dal Rotor”, ricordava ai microfoni de La settimana Incom, “e, non avendo perso la cognizione, la mia prima preoccupazione è stata toccarmi la faccia, dicendo: Credo che non potrò più lavorare…”.
Vite in equilibrio precario tra verità e menzogna, fino al felliniano momento che rompe l’incantesimo: una notte di San Silvestro da Rinaldo (Alberto De Amicis), quello che “bidonerebbe pure sua madre. Se questo ti da la mano, contati le dita perché stai tranquillo che ce ne mancano almeno un paio”, adesso cittadino al di sopra di ogni sospetto, con tanto di villa in Svizzera, chissà per quali loschi, ma rispettabilissimi affari. Lì, in mezzo al trambusto di Capodanno, tra finti luccichii e criminali ripuliti, basta la sparizione di un portasigarette d’oro –Carlo Lizzani replicherà la scena in Roma bene (1971)- per rivelare la sottigliezza del filo a cui sono appese le loro esistenze.
Le luci della festa si spengono per i nostri, che vengono cacciati nel ventre gonfio di promesse e minacce del primo dell’anno, palcoscenico del faccia a faccia tra Basehart, doppiato da Enrico Maria Salerno, e Masina, che scopre la vera occupazione di suo marito. A questo primo squarcio del velo segue la notte decisiva, una particolare epifania a spasso per le stradine buie di Marino, tra luna park spenti, sbornie in ritirata ed edicole sacre. Una sequenza che sublima non soltanto la bellezza estetica e simbolica del gioco tra luce naturale, luce artificiale e tenebre che permea il film, ma anche la mirabile tensione tra sacro e profano che attraversa la produzione di Fellini.
Inizia così la seconda parte del film, nella quale i tagli producono un effetto straniante, ma profondamente suggestivo. Roberto, Picasso e Iris spariscono, come se Augusto avesse interagito con se stesso -con Roberto, l’Augusto più giovane, che si crede immune alla vita; con Picasso, l’Augusto che ha messo su famiglia e rischia di perdere tutto- e adesso fosse rimasto solo. L’epifania del “terzo” Augusto, quello maturo, sul quale si concentra l’attenzione d’ora in avanti, arriva quando incrocia sua figlia, dopo un anno di silenzio: Patrizia (Lorella De Luca) non è più una bambina, bensì una giovane donna in procinto di lasciare gli studi per problemi economici.
La prima opzione per interpretare Augusto aveva il nome di Humphrey Bogart, “la tipica faccia del bidonista calabrese”, secondo Federico, ma era già ammalato e William Broderick Crawford prese la palla al balzo, fresco del suo stupendo Willie Stark in Tutti gli uomini del re (Robert Rossen, 1949). Un film che Fellini, come svela Kezich, non aveva visto, ma era rimasto impressionato dal suo aspetto “greve, malinconico, con i dolcissimi occhi a fessura: perfetto. E, attraverso un rapido scambio di telegrammi, disponibile”. L’attore sbarcò a Fiumicino con una pesante valigia: l’Oscar, il Golden Globe, un tormentoso divorzio, una lotta contro l’alcolismo.
E Il bidone assestò un duro colpo al processo di disintossicazione. La troupe arrivò a Marino a fine aprile, durante i fasti della sagra del vino: “Brod” si buttò in mezzo a un corteo e venne ritrovato due giorni dopo, addormentato in un fosso. Da allora, attraversò la lavorazione del film, nelle parole del regista, “in una nube alcolica”. Ancor di più, come spiega Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, “per indicargli la strada, i macchinisti facevano un percorso di assi di legno perché andassi dritto”. Il risultato? Un miracolo di pietà, di cognizione intima del dolore, di esasperante vuoto esistenziale, con la voce di un altro doppiatore eccelso, Arnoldo Foà.
In questa trilogia tra salvezza e solitudine, fatta di ingiustizie e di mondi feriti dentro e fuori, Augusto, nome tutt’altro che casuale, ne incarna il volto oscuro, in cui le gocce di fantasia felliniana vengono prosciugate. Se Gelsomina salva Zampanò, se Iris -almeno ci speriamo- salva Picasso, se lo spirito di Cabiria si rivela, nonostante tutto, incrollabile, cosa rimane ad Augusto? Per lui, la portatrice della grazia è sua figlia, ma la salvezza sembra irraggiungibile: viene malmenato da un creditore e portato in carcere, sotto gli occhi terrorizzati di Patrizia. Un ultimo bidone -ripetizione del primo, simbolo, come la giostra, di una vita che gira a vuoto- potrebbe raddrizzare la situazione?
Il bidone è uno straordinario unicum nella produzione di Fellini. Una tragedia morale travolgente, un trionfo di umanità all’interno di un racconto spaventosamente crudo, spaventosamente reale. Per Truffaut, “un miscuglio esplosivo che può dare fastidio in un festival a tutti coloro che entrano nella sala impazienti di uscirne”. E, come Federico rese il sopracitato omaggio alla scena finale di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), così il regista francese incluse una giostra centrifuga ne I 400 colpi (1959). Un’aria neorealista attraversa Il bidone, perlustrando le molte zone d’ombra -quelle che urtavano i critici- di un’Italia sulla via della ricostruzione.
Ma il film sfugge a qualsiasi definizione facile: l’impianto neorealista viene, al tempo stesso, sorpassato, arrivando a un iperrealismo senza la poetica magica dei compagni di trilogia, leggermente intinto in acque noir e cosparso di dettagli che preannunciano la vena estetizzante e allegorica del Fellini che verrà, dalla festa nel night club, in pieno stile La dolce vita (1960), alla lunga sequenza del veglione, diretta in modo magistrale, a ribadire il genio del riminese per le scene di gruppo. E poi, l’epilogo, tra i più belli del cinema felliniano, probabilmente il più duro e amaro. Perché no, non c’è la possibilità di un bidone purificatore nella vita del nostro clown.
Dopo una lite con la nuova banda, Augusto cade in un burrone, batte la schiena e viene abbandonato. Qui non c’è alcuna musica, seppur sottile, pregna di speranza; qui c’è soltanto un vento bergmaniano somigliante al silenzio di Dio. “Sarei rimasto delle ore”, ancora Truffaut, “a vedere morire Crawford”. Una scena dalla sublime potenza estetica e simbolica, poi ripresa in Non si sevizia un paperino (1972). Ma, se la salita disperata sulle rocce della maciara di Lucio Fulci è l’espiazione di colpe altrui, per Augusto è il prezzo della propria miseria morale. Un percorso catartico condannato a fallire perché basato sul peggiore dei peccati: la corruzione dell’innocenza.
Il bidone
Un film di Federico Fellini, 1955. Italia, Titanus. 105′, b/n.
Soggetto e sceneggiatura: Ennio Flaiano, Federico Fellini, Tullio Pinelli. Interpreti: Alberto De Amicis, Broderick Crawford, Franco Fabrizi, Giacomo Gabrielli, Gino Buzzanca, Giulietta Masina, Lorella De Luca, Mara Werlen, Maria Zanoli, Mario Passante, Riccardo Garrone, Richard Basehart, Sara Simoni, Sue Ellen Blake. Fotografia: Otello Martelli. Montaggio: Giuseppe Vari, Mario Serandrei. Scenografia: Dario Cecchi. Musiche: Nino Rota.
Dichiarazioni tratte da: La settimana Incom (13 maggio 1955, Archivio Luce), Cahiers du cinéma 51 / Ottobre 1955, Fare un film (Federico Fellini, ET Saggi, 2015), intervista a Gian Luca Farinelli (Berlinale 2020), Federico. Fellini, la vita e i film (Tullio Kezich, Feltrinelli, 2021).