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La follia è una condizione umana, esiste ed è presente in noi come lo è la ragione. Il problema è che la società, che, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece, incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia per eliminarla.
Con questa ispirazione dello psichiatra veneziano Franco Basaglia, il 13 maggio del 1978 venne approvata la Legge 180, che fece dell’Italia il primo Paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. Significava questo che il disagio psichico non esisteva più? Niente affatto. La “Legge Basaglia”, ridotta nell’immaginario collettivo a una “chiusura dei manicomi”, fu solo l’inizio di una lunga e travagliata rivoluzione sociale che proponeva una trasformazione radicale dell’assistenza psichiatrica allo scopo di superare il perverso sistema d’internamento vigente.

La vita dopo Basaglia
Perché “la pazzia non guarisce per legge: la legge chiude i manicomi, libera i matti. Così, se le famiglie se li riprendono, impazziscono anche loro, e se non se li riprendono, poi questi che fanno?”. A parlare è il dottor Del Vecchio (Giorgio Colangeli), fondatore della Cooperativa 180, mentre fa il punto della situazione al nuovo direttore, Nello Trevi (Claudio Bisio), mandato lì in punizione perché tacciato di problematico nel suo sindacato, dopo la pubblicazione di un saggio in cui riconosce la vittoria del mercato e la necessità di starci dentro con i propri valori.
“Ma non ti lasciamo da solo” sono le ultime parole che ascolta prima di arrivare -rigorosamente da solo- in quella cooperativa di “ex” malati mentali dimessi dal manicomio, che perdono i giorni in lavoretti assistenziali tutt’altro che stimolanti -incollare francobolli per il comune, mettere il prezzo alle olive della Coop. Come sottofondo, la Milano del 1983, la “città da bere”, dai ritmi serrati, la moda e lo yuppismo, locomotiva di un Paese che attraversa un momento nevralgico della sua storia. Un treno di modernità che minaccia di investire alcuni dei suoi cittadini.
Nello si accorge subito del disastroso stato in cui versa la cooperativa, con un Del Vecchio sopraffatto dal lavoro (“Non ho tempo per stargli dietro. In manicomio ho altri 150 che nessuno vuole”) e dei “soci” fantasmi che sopravvivono imbottiti di sedativi, ridotti alla condizione di cartelle cliniche. In quel pezzo di mondo alieno, il sindacalista trova una soluzione che sconvolge l’ordine stabilito: applicare la logica della vita quotidiana all’interno della 180, ovvero, mettere in moto una cooperativa vera e propria che garantisca loro un reale stipendio.
Così, la sgangherata armata di lavoratori si lancia sul mercato, specializzandosi, grazie ad una precisione tecnica e una sensibilità artistica che vengono inaspettatamente a galla, nei parquet a mosaico, fatti con gli scarti di lavorazione del legno (“Siamo una cooperativa di scarti”). Un processo di immersione nel mondo reale, di crescita e guarigione che porta persino alla diminuzione del trattamento farmacologico, con il supporto del basagliano dottor Furlan (Giuseppe Battiston). Fino al giorno dell’incidente che scuote le fondamenta della favola.
Ma significa questo che Nello e Furlan hanno sbagliato tutto?

Territori inesplorati
La pazzia, quel nocciolo irriducibile di oscurità e genio che si annida nella mente umana, è stata un territorio per pensatori, artisti e poeti sin dall’inizio dei tempi, dalle riflessioni di Seneca ed Erodoto all’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam e i racconti di Edgar Allan Poe (“Gli uomini mi hanno chiamato pazzo, ma nessuno ancora ha potuto stabilire se la pazzia è o non è una suprema forma d’intelligenza”, Eleonora, 1841). Anche il cinema ha frequentato il tema, ma usando spesso i malati di mente come soggetto privilegiato per fare una denuncia generica delle ingiustizie disumane del sistema manicomiale.
Si può fare (Giulio Manfredonia, 2008), invece, affronta il secondo tempo della partita, spesso trascurato -una volta chiusi i manicomi, che si fa?-, esplorando la vita del “malato di mente” nella quotidianità delle persone “normali”. Inconsapevolmente, Nello dà il via a un’utopia, uno spaccato di vita in cui entrambi territori si sfiorano e si confondono perché le speranze e le sfide (famiglia, amicizia, amore, sesso, lavoro, libertà) fanno sempre paura e sono le stesse per tutti. Si può fare, davvero, poiché il film si ispira alle cooperative sociali nate in seguito all’approvazione della Legge Basaglia, in particolare la “Noncello” di Pordenone.
Gigio (Andrea Bosca) o Luca (Giovanni Calcagno), per citarne solo alcuni, attirano subito l’attenzione dello spettatore in quanto esseri umani, non per la sua condizione di salute, perché Si può fare racconta una storia di diritti e dignità, di cultura e di passioni che li mette al centro del progetto riabilitativo, con tutte le loro potenzialità. Nello non è un medico o uno psichiatra, l’uso del metro della pazzia come criterio di valutazione rimane fuori da qualsiasi considerazione. Per lui esiste soltanto la fiducia, che spalanca la porta della dignità attraverso quei dettagli che mettono il mondo in movimento.
È la meraviglia di scoprirsi “specialisti” in qualcosa, di far parte di un gruppo senza padroni né schiavi (“In una cooperativa le colpe si dividono, siamo tutti stronzi!”), di sentirsi chiamare “signore” e, soprattutto, di sentirsi rispettato nella propria autonomia di scelta. È questo piccolo, immenso miracolo a segnare una delle scene più belle del film (e questa non è sicuramente una scelta semplice), la riunione durante la quale Nello viene messo in minoranza dai soci: “Se mi fanno incazzare, m’incazzo, questo è rispetto! / Ma non ti rendi conto che loro che ti votano contro è la tua vittoria più bella?”.

“Da vicino, nessuno è normale”
Nel suo capolavoro La paura in Occidente, Jean Delumeau analizza come essa abbia svolto un ruolo capitale nella storia, attraverso mille volti -dalle forze della natura alla caccia alle streghe, dallo straniero e il ribelle all’eresia-, ma trovando sempre lo stesso punto in comune: la diversità, tutto ciò che non si conosce e dunque non si può dominare, almeno facilmente. Incubi di un passato vicino che sorvolano le strategie del potere della società contemporanea, le cui radici affondano nella formula foucaultiana “sorvegliare e punire” come garanzia di sottomissione.
Anche Nello, a modo suo, è un diverso -prima come sindacalista preveggente, poi come direttore della 180– e perciò ha la capacità di far saltare in aria tutti quei sistemi di micropotere asimmetrici con la forza della fiducia e l’empatia: “Lei vuole farmi credere che ha messo su questo baraccone e non sa niente della nuova psichiatria? / Ho pensato: se una cosa fa bene a me, farà bene anche a loro”. La rivoluzione è che quelle cartelle cliniche sono esseri umani e che “la vita è sempre un rischio”, al di qua e al di là della sottile linea rossa fra ragione e pazzia.
E che di miracoli ne abbiamo bisogno tutti. Anche su pellicola: “Scusi, lei non lavora? / Io no, io faccio miracoli. / Bravo, bene, ne avremo bisogno”.

Si può fare
Un film di Giulio Manfredonia, 2008. Italia, Rizzoli Film. Colore, 112′.
Soggetto: Fabio Bonifacci, Alessandro Genovesi. Sceneggiatura: Fabio Bonifacci, Giulio Manfredonia. Interpreti: Andrea Bosca, Andrea Gattinoni, Anita Caprioli, Ariella Reggio, Bebo Storti, Carlo Gabardini, Claudio Bisio, Daniela Piperno, Franco Pistoni, Giorgio Colangeli, Giovanni Calcagno, Giuseppe Battiston, Michele De Virgilio, Natascia Macchniz, Pietro Ragusa, Rosa Pianeta. Fotografia: Roberto Forza. Montaggio: Cecilia Zanuso. Scenografia: Marco Belluzzi. Musiche: Pivio e Aldo De Scalzi.