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Giuseppe De Santis non ha sempre ricevuto il riconoscimento che si merita(va). Ma, se la cecità di una fetta della critica è una certezza, lo è anche la straordinarietà di questo intellettuale del cinema, padre di una filmografia essenziale per capire l’Italia del dopoguerra, fatta di coraggio, virtuosismo tecnico e sincero compromesso sociale. Roma ore 11 (1952) non è un’eccezione.

Ancor di più, spicca con particolare forza tra i suoi titoli più belli e, come i migliori figli della stagione neorealista, abbraccia l’universale attraverso lo snodo di mille microstorie contemporanee. Microstorie che, dopo il sentiero rurale e sentimentale battuto da Caccia tragica (1947), Riso amaro (1949) e Non c’è pace tra gli ulivi (1950), diventarono urbane nel suo quarto lungometraggio, tratto da un fatto accaduto pochi mesi prima, il 15 gennaio 1951, quando duecento ragazze in attesa di partecipare alla selezione per un posto di segretaria dattilografa rimasero coinvolte nel crollo della scala di un palazzo in via Savoia (largo Circense nel film).
Una giovane morta, quasi un centinaio di ferite: la “tragedia di via Savoia” scosse l’opinione pubblica e De Santis si mobilitò per farne una trasposizione filmica. La raccolta dei dati venne affidata all’allora giovanissimo giornalista dell’Unità Elio Petri, il quale rievocherà lo spirito di questa esperienza nella controinchiesta Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970), sulla scia della strage di Piazza Fontana. Dal suo eccezionale dossier e affiancato da Cesare Zavattini, Gianni Puccini, Rodolfo Sonengo e Basilio Franchina, il regista trasse un soggetto che segue le orme “della piccola, anzi, piccolissima cronaca” di cui parlava Vittorio De Sica.

E lo fa con un cast eccezionale che comprende alcuni dei suoi nomi feticcio e va da Lucia Bosè, Raf Vallone e Massimo Girotti, a Carla Del Poggio, Delia Scala e Lea Padovani, passando per la meravigliosa Elena Varzi, che non ci regalò la sua presenza sul grande schermo tanto quanto avremmo voluto, e per quel monumento irresistibile del cinema e il teatro italiano chiamato Paolo Stoppa. Un crocevia di amori, ribellioni, angosce e speranze dalla mirabile tensione narrativa, sia nella prima parte, fino alla magistrale sequenza del crollo della scala, che nella seconda, tra le vicissitudini in ospedale e le indagini in cerca di un capro espiatorio.
De Santis prende il meglio di un neorealismo che stava arrivando a destinazione e lo espande, penetrando con garbo nei drammi personali delle protagoniste e persino nuotando nelle acque di un (neo)realismo magico -basti ricordare il delizioso colpo di fulmine tra Cornelia (Maria Grazia Francia) e il marinaio (Marco Vicario)- sublimato dalla fotografia noir di Otello Martelli. Una favola dolorosamente ancorata alla realtà di una nuova Roma che non annusa il profumo del boom economico, dove le macerie sono ancora i segnaposti di un paesaggio urbano pasoliniano, nel quale i quartieri popolari e le borgate si aprono come ferite topologiche.

“Il crollo di via Savoia era un dito puntato contro la piaga della disoccupazione”, scrisse il regista, che presenta non solo uno dei più bei quadri sulla condizione femminile nel dopoguerra, ma analizza un intero universo in formazione che si coniuga anche al maschile, fatto di intimità e comunità, con i personaggi di Stoppa, Vallone e Girotti -ovvero, il padre, il fidanzato, il marito- come contraltari complici e sofferenti, complementari e imprescindibili nel processo di adattamento ai nuovi tempi. Topoi che ripercorrerà -e non è un caso che entrambi venissero, e vengano tutt’oggi, considerati i registi più “americani” del periodo- Pietro Germi ne Il ferroviere.
Questo referente visivo e narrativo d’oltreoceano consente a De Santis, esperto nell’uso del panfocus e del carrello dolly per gli spostamenti orizzontali e verticali rapidi della cinepresa, di insufflare vita a scene e sequenze dalla forza simbolica disarmante, in particolare quell’ascensore sul quale sale il padrone -veloce, leggero, da solo- fino al terzo piano, da dove osserva le candidate accalcate nella rampa, che gli tengono lo sguardo puntato addosso come bestiole fameliche. Planimetrie squadrate per esseri umani squadrati, eroi tragici che si travestono da disoccupati, lavoratori saltuari, baraccati, sfrattati, immigrati che svuotano le campagne in cerca di una svolta.

Nel vedere Luciana e Nando (Del Poggio, Girotti) in sella a una bicicletta claudicante, risulta impossibile non pensare ad Antonio e Maria (Lamberto Maggiorani, Lianella Carell) in Ladri di biciclette (De Sica, 1948), consumando le strade alla ricerca disperata di un posto di lavoro sottopagato. Perché Roma ore 11 non è soltanto uno spaccato della città, ma anche uno spaccato dell’Italia e del mondo di ieri, oggi e domani, un atto di accusa brillante e mai manicheo contro un sistema che usa e getta gli esseri umani, pugili quotidiani in una paurosa inferiorità di condizioni, spesso costretti a sacrificare la loro dignità per un pugno (allora) di lire.
“Bisognerebbe aumentare lo stipendio a tutti gli impiegati!”, grida Stoppa ai microfoni dei radiocronisti. “Questo non c’entra con il crollo della scala… / C’ENTRA, C’ENTRA!”. No, la sua denuncia non andò mai in onda: nel mirino di De Santis, anche quei giornalisti più interessati alle storie strappalacrime per le corsie dell’ospedale che alle ragioni che costringono le famiglie ad abbandonarlo, quando vengono informate della retta giornaliera di 2.300 lire. Un film imprescindibile, dall’attualità spaventosa: “Ieri come oggi”, rifletteva Giuliano Montaldo, “vedere come eravamo per sapere ancora che siamo a questo punto”. Spaventosa, anzi, imbarazzante.

Roma ore 11
Un film di Giuseppe De Santis, 1952. Italia – Francia, Titanus – Transcontinental Film. 105′, b/n.
Soggetto e sceneggiatura: Basilio Franchina, Cesare Zavattini, Corrado Alvaro, Elio Petri, Gianni Puccini, Giuseppe De Santis, Rodolfo Sonego. Interpreti: Carla Del Poggio, Checco Durante, Delia Scala, Elena Varzi, Irene Galter, Lucia Bosè, Marco Vicario, Maria Grazia Francia, Massimo Girotti, Paolo Stoppa, Raf Vallone. Fotografia: Otello Martelli. Montaggio: Gabriele Varriale. Scenografia: Leon Barsacq. Musiche: Mario Nascimbene.
Curiosità: nello stesso anno, Augusto Genina diresse un altro film ispirato alla tragedia di via Savoia, Tre storie proibite.
A spasso per un Paese che saliva sulle macerie: