Nel 1958, il Dracula di Terence Fisher sbancò il botteghino e il primo piano di sir Christopher Lee con i canini sanguinanti diventò uno dei santini dell’universo dell’orrore. L’inaspettato successo internazionale del primo film vampiresco della Hammer risvegliò il potenziale commerciale di questo filone cinematografico e spianò la strada al più grande capolavoro del gotico italiano: La maschera del demonio del maestro Mario Bava.
Barbara Steele ne La maschera del demonio. Mario Bava, 1960.

Se l’aldilà era stato uno dei campi di prova privilegiati delle nuove tecniche filmiche durante la stagione del muto, con l’avvento del fascismo il cinema horror venne pesantemente messo al bando. Dopo due decenni di ostracismo, l’atmosfera sociale e artistica degli anni ’50 convinse Mario Bava e il fidato collega e amico Riccardo Freda a esplorare il genere in profondità: in uno strepitoso crocevia di influenze -da La maschera di cera (André De Toth, 1953), con Vincent Price, all’attività scultorea di Eugenio, padre di Mario-, diedero vita a I vampiri (1957), un poliziesco fantascientifico, e a Caltiki, il mostro immortale (1959), giallo “lovecraftiano”.

Ma non fu fino al 1960, con l’esordio alla regia (rigorosamente in solitario) di Bava, che vide la luce il primo film dell’orrore italiano moderno. La maschera del demonio -titolo che rievoca anche un altro successo di Fisher, La maschera di Frankenstein (1957)- prende spunto dal racconto Il vij (1835) di Nikolaj Gogol’, autore che ha lasciato delle magnifiche impronte sul nostro cinema, da Il cappotto (Alberto Lattuada, 1952), con un’ambientazione lodata dalla propria delegazione sovietica al Festival di Cannes, al meraviglioso Gli anni ruggenti di Luigi Zampa (1962), dove L’ispettore generale di Pietroburgo si vede catapultato nella Puglia del Ventennio.

Barbara Steele ne La maschera del demonio. Mario Bava, 1960.

Il film si apre con un formidabile prologo ambientato nella Moldavia del XVII secolo: Asa Vajda (Barbara Steele) lancia una maledizione sugli uomini che, capeggiati dal fratello inquisitore, la stanno condannando a morte assieme all’amante Javutich (Arturo Dominici); sottoposti alla tortura della “maschera del demonio”, i corpi degli stregoni non vengono, però, completamente bruciati sul rogo perché una pioggia torrenziale costringe la folla a scappare. Un salto di due secoli e la cinepresa sale su una carrozza che attraversa quelle terre in direzione Mosca con a bordo il dottor Thomas Kruvajan (Andrea Checchi) e il suo assistente Andrej Gorobec (John Richardson).

Entrambi si addentrano fra i ruderi di un castello e riportano accidentalmente in vita Asa, che comincia una corsa di vendetta sui discendenti degli assassini (Ivo Garrani, Enrico Olivieri, Tino Bianchi), mentre cerca di impossessarsi del corpo della sua sosia, Katia Vajda (sempre Steele). Con la precisione di un orefice, il regista e una folta squadra di sceneggiatori –Ennio De Concini (futuro premio Oscar per Matrimonio all’italiana), Mario Serandrei e, anche se non accreditati, Marcello Coscia e Dino De Palma– rispolverarono il primo copione, una trasposizione quasi letterale del testo di Gogol’, e intrecciarono il canone vampiresco filmico con la stregoneria e il Doppelgänger.

John Richardson e Andrea Checchi ne La maschera del demonio. Mario Bava, 1960.

E fu così che esplose l’universo Bava, una rivoluzionaria atmosfera tra il teatro, il sogno e l’allucinazione, che sfrutta e celebra l’innaturale; un esempio compiuto del mood cinematografico inaugurato da Nosferatu (1922), al quale rende omaggio: come non pensare alla “sinfonia dell’orrore” di F. W. Murnau durante la corsa imbizzarrita della carrozza che, allo scoccare della mezzanotte e guidata da un cocchiere spettrale come gli alberi del bosco, porta Kruvajan nel castello Vajda? Il film è un compendio quasi miracoloso dei topoi tecnici e argomentali di un regista che, interpellato sui segreti del mestiere, rispondeva: “Esperienza e pazienza certosina”.

Lui ce le aveva, eccome. Suo padre, già scenografo per la Pathé Frères, era anche stato direttore del riparto trucchi cinematografici all’allora giovane Istituto Luce, dove Mario aveva cominciato a farsi le ossa come titolista, prima di diventare direttore della fotografia a fianco di mostri come Steno, Mario Monicelli o Luciano Emmer. La raffinatezza ed eleganza che sin dall’inizio contraddistinse il “tocco Bava” si traduce ne La maschera del demonio in quello che probabilmente sia l’uso più affascinante e coinvolgente del chiaroscuro della sua carriera (il che non è dire poco), una plasticità dalla bellezza onirica, con indipendenza dal campo o piano di ripresa.

Andrea Checchi ne La maschera del demonio. Mario Bava, 1960.

A completare questa rivoluzione, gli effetti speciali, che contarono sulla preziosa collaborazione di papà Eugenio. Mani che scavano la terra per uscire dalla fossa, bare esplosive, bicchieri posseduti: più di sessant’anni dopo, non hanno perso un briciolo della loro effettività. Ne La maschera del demonio, un salto di qualità verso l’orrore inteso in senso “puro”, le scene di violenza raggiungono livelli che all’epoca rasentavano ciò che oggi sarebbe considerato splatter: basti ricordare i corpi in decomposizione (e ricomposizione), l’inchiodamento delle maschere nei volti di Asa e Javutich o il piano dettaglio sulla pelle della strega marchiata a fuoco con la S di Satana.

Questa effettività va a braccetto con l’importanza che l’elemento umano e la psicologia del male acquisiscono nel film, quell’incrocio tra violenza patologica e sensualità morbosa targato Bava. In una scommessa molto rischiosa, ma assolutamente vincente, Steele fu la prima attrice a interpretare un mostro, al tempo stesso, bello e spaventoso, attraente e nauseante, simbolizzato nello straordinario scambio di primi (e primissimi) piani tra Asa -che, risvegliatasi nella tomba, graffia la pietra, ansimando- e il dottor Kruvajan (non lo diremo mai abbastanza: irraggiungibile, come sempre, Andrea Checchi), nella morsa tra ripugnanza e desiderio fatale.

Andrea Checchi e Barbara Steele ne La maschera del demonio. Mario Bava, 1960.

Perciò sono facili da capire gli attriti con la censura nel Regno Unito, dove subì degli impietosi tagli e venne distribuito come Black Sunday (Domenica nera) o Revenge of the Vampire (La vendetta del vampiro). Più ironica (si fa per dire) fu la commissione ministeriale italiana che lo esaminò: “La sceneggiatura è talmente brulicante di streghe, vampiri, scheletri, fantasmi, assassini e cadaveri che Dracula sembra un cartone animato”. Difatti, Lionello Santi aveva concepito il progetto come un concorrente del lavoro di Fisher, ma per fortuna la testardaggine in bianco e nero di Bava prese il sopravvento sulla mentalità “all’americana” del produttore.

Nemo propheta in patria, però: accolto con freddezza in Italia, riscosse un successo clamoroso all’estero e l’American International Pictures spalancò le sue porte davanti al sanremese. Pioniere e perfezionista dell’immagine, regista all’avanguardia, instancabile esploratore di nuove tematiche e tecniche, la modernità assoluta della sua “maschera” innescò una rivoluzione cinematografica dall’influenza incommensurabile sulle successive generazioni, che l’hanno finalmente riconosciuto come ciò che è, un maestro indiscusso della settima arte, da Dario Argento a John Carpenter o Tim Burton, per il quale “i film di Bava sono i più reali di tutti i tempi”.

Reali come il male, reali come il talento sconfinato, come il genio supremo di quel bambino esile e spiritoso che andava in giro con le tasche piene di sassi per evitare che il vento se lo portasse via.

(La mano di) Ivo Garrani ne La maschera del demonio. Mario Bava, 1960.

La maschera del demonio

Un film di Mario Bava, 1960. Italia, Galatea – Jolly Film. 87′, b/n.

Soggetto: tratto dal racconto Il vij, di Nikolaj Gogol’. Sceneggiatura: Dino De Palma, Ennio De Concini, Marcello Coscia, Mario Bava, Mario Serandrei. Interpreti: Andrea Checchi, Antonio Pierfederici, Arturo Dominici, Barbara Steele, Clara Bindi, Enrico Olivieri, Germana Dominici, Ivo Garrani, John Richardson, Mario Passante, Tino Bianchi. Fotografia: Mario Bava. Effetti speciali: Eugenio Bava, Mario Bava. Montaggio: Mario Serandrei. Scenografia: Giorgio Giovannini. Musiche: Les Baxter, Roberto Nicolosi.

Dichiarazioni tratte da: Cinema 70 (Rai, 1970). L’ospite delle due (Rai, 1975). Mario Bava, Maestro of the Macabre (Garry S. Grant, 2000). Italian Gothic Horror Films, 1957-1969 (Roberto Curti, 2015).

Vampiri, Frankenstein e un po’ di Edgar Allan Poe, o come (ri)nacque l’orrore italiano:

I VAMPIRI E LA (RI)NASCITA DELL’ORRORE ITALIANO