Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. Il comando tedesco, perciò, ha ordinato che, per ogni tedesco ammazzato, siano fucilati dieci criminali comunisti badogliani. Quest’ordine è già stato eseguito.

— Frammento del comunicato pubblicato su Il Messaggero il 25 marzo 1944.

24 marzo 1944: un ufficiale nazista è seduto sul sedile del conducente di una Typ 82 Kübelwagen, con il capo chino, appoggiato sul volante, e si copre le orecchie con le mani. L’esecuzione di 335 uomini innocenti tramite Genickschuss (colpo di pistola alla nuca) va avanti da ore nel paesaggio desolato delle cave di pozzolana che sorgono nei pressi della via Ardeatina, alle porte di Roma. Il sole sta tramontando. Motori, spari, urla: i rumori si sovrappongono e diventano insopportabili. È questa una delle ultime scene di Dieci italiani per un tedesco e riassume con particolare vividezza tutte le qualità -che sono molte- del film diretto da Filippo Ratti nel 1962.

Ivo Garrani e Marco Mariani in Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella). Filippo Ratti, 1962.

Ratti girò diciassette film in trent’anni di carriera, spaziando dalla commedia al giallo e, in molte occasioni, affiancato da alcuni nomi d’oro del nostro cinema, ma senza passaggi rimarchevoli. Due furono le eccezioni: la prima, Una meravigliosa notte (1953), adattamento del Canto di Natale di Charles Dickens, con Paolo Stoppa nei panni di un signor Scrooge de noantri; la seconda, la ricostruzione dell’eccidio delle Fosse ardeatine: un film dal mirabile polso narrativo, in perfetto equilibrio tra rigore storico e carica emozionale, coronato da un’efficace triade -suono, fotografia, colonna sonora- che riesce spesso a togliere il respiro allo spettatore.

Questo è esattamente ciò che raccoglie la scena descritta, nonché la costante già dai primi minuti di Dieci italiani per un tedesco, quando la cinepresa segue i passi matematici della colonna di soldati del reggimento Bozen che attraversa via Rasella quel pomeriggio di inizio primavera. A continuazione, l’esplosione dell’ordigno sistemato da una manciata di membri dei GAP romani in un carretto della spazzatura. Poi, decine di corpi inermi sul selciato. “Un vecchio quartiere di case sudice, di stradine scomode, inadatte al traffico”, dice Herbert Kappler, interpretato in maniera straordinaria da Carlo D’Angelo, “bisognava raderlo al suolo e fucilare tutti”.

Fu lui, capo della Gestapo di Roma, la testa della rappresaglia, insieme al questore Pietro Caruso (Nino Pavese). “Un’esecuzione immediata”, una lista di condannati a morte scelti tra i detenuti dell’infame sede della Sicherheitspolizei in via Tasso e quelli del carcere di Regina Coeli: politici e comuni, ebrei e antifascisti, innocenti presi per strada durante un rastrellamento o dopo il coprifuoco. A tutti loro rende omaggio attraverso le storie incrociate dei protagonisti, dal professor Marcello Rossi dell’immenso Andrea Checchi allo straziante Giovanni di Ivo Garrani, reo di aver difeso una di quelle biciclette che segnavano la sottile linea rossa tra la vita e la morte.

Carlo D’Angelo in Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella). Filippo Ratti, 1962.

Con l’avvento degli anni ’60, l’effervescenza politica in Italia portò verso una riapertura dei conti con la Storia recente. Nel 1959, La grande guerra di Mario Monicelli e Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini avevano dato la spinta morale e artistica perfetta alla prima generazione di registi post-fascisti, quelli che non ebbero mai di accomodare le sue idee alle realtà del regime, per riconquistare lo sguardo policentrico perso nel decennio precedente e far saltare in aria qualsiasi divieto imposto dai poteri politici e produttivi. Una sorta di “secondo tempo” del neorealismo, che fece rientrare nel campo cinematografico tematiche proibite negli anni precedenti.

Mafia, corruzione politica, mondo della industria, sindacati e, ovviamente, anche fascismo e Resistenza. Ratti parla della più importante azione di guerra compiuta dai gappisti romani, ancora oggi oggetto di un profondo dibattito storiografico: furono le Fosse ardeatine la “cronaca di una rappresaglia annunciata” in una Roma dichiarata “territorio di guerra” da Albert Kesselring? Una cosa è chiara: c’era in gioco l’essenza stessa della libertà e la dignità umana in una città che, tra altri orrori, aveva già conosciuto il rastrellamento del ghetto e dove ebrei e oppositori imboccavano la strada del carcere, dell’esilio o dell’inferno dei campi di sterminio.

Sergio Fantoni e Gino Cervi in Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella). Filippo Ratti, 1962.

Questo ragazzo l’abbiamo condannato noi a morte con i nostri vent’anni di indifferenza al fascismo, con la nostra vigliaccheria. Avremmo potuto opporci con le nostre forze e allora sarebbe stato il momento di gridare “Viva l’Italia!”. Non l’abbiamo fatto, ci siamo ribellati troppo tardi per pretendere di avere le mani pulite.

A parlare così è Gilberto (Sergio Fantoni), figlio di un conformista nobile romano che viveva ignorando la verità del nazifascismo (Gino Cervi), torturato come collaboratore partigiano e poi fucilato. Le vittime di via Rasella furono 32; gli innocenti trucidati nelle Fosse ardeatine, 335: dieci nomi vennero aggiunti in piena notte, dopo la morte in ospedale di un altro soldato tedesco, e gli altri cinque finirono nella lista per colpa di un errore amministrativo. “Potremmo risparmiare i quindici in più” / “E riportarli indietro perché facciano da testimoni di quanto è successo?”. Una scena fondamentale: per quei quindici nomi “extra”, Kappler verrà condannato dopo la guerra.

Andrea Checchi in Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella). Filippo Ratti, 1962.

Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella) è un’opera coraggiosa che merita un’urgente (ri)scoperta, non soltanto per i suoi pregi artistici, ma anche per la sua onestà e la sua lucidità, un esercizio di cinema e impegno civile che non fa sconti e appella al ruolo decisivo e mai comodo della responsabilità individuale e il dovere morale in tempi bui. Perciò, forse il momento più bello e illuminante del film sia la risposta del professore a Hans Weiss (Oliviero Prunas), ammiratore della sua opera letteraria. In un tetro ufficio di Regina Coeli, Andrea Checchi, con quella dignità radiosa di cui dota i suoi personaggi, guarda il giovane ufficiale nazista negli occhi:

Evidentemente non deve averlo letto molto bene, oppure ha dimenticato quello che io ho scritto sui soldati per parlarmi con questo tono da complice: “Non è un buon soldato chi obbedisce a tutti gli ordini. Il soldato che obbedisce ed esegue un ordine criminale non è un buon soldato, ma un criminale egli stesso. La ribellione individuale, in qualsiasi campo, è l’unica arma per combattere le dittature”. E adesso, se permette, io vorrei raggiungere i miei compagni. Noi due non abbiamo nient’altro da dirci.


Dieci italiani per un tedesco (Via Rasella)

Un film di Filippo Ratti, 1962. Italia, Polaris Film. 94′, b/n.

Soggetto: Luigi Angelo, Vincenzo Petti. Sceneggiatura: Filippo Ratti, Luigi Angelo. Interpreti: Andrea Checchi, Carlo D’Angelo, Cristina Gajoni, Gino Cervi, Gloria Milland, Ivo Garrani, Loris Gizzi, Marco Mariani, Nino Pavese, Oliviero Prunas, Sergio Fantoni. Montaggio: Nella Nannuzzi. Fotografia: Aldo Greci. Musiche: Armando Trovajoli.

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