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– Scusi l’insistenza, principe, ma rifletta: al contrario di tanti altri nobili, lei ha la fortuna di poter vendersi il palazzo perché non è stato dichiarato monumento nazionale… La cifra che noi le offriamo rappresenta più del doppio del suo valore reale.
– Ma che ne sa lei che cosa può valere per me la mia casa?

Scegliere il miglior film di un regista è molto difficile: se già gli aspetti tecnici possono essere oggetto di infiniti dibattiti, le considerazioni soggettive, ancorate nella baia culturale ed emotiva di ogni spettatore, ne fanno una missione pressoché impossibile. Nonostante questo, nella filmografia di Antonio Pietrangeli spicca un titolo che, per tutte le sue straordinarie particolarità, potrebbe venire insignito di questa onorificenza senza incorrere -altroché- in un delitto di lesa maestà: Fantasmi a Roma (1961).
Una presenza, quella del regista romano, poco rumorosa, ma costante, imprescindibile nel cinema italiano degli anni ’50 e ’60. La sua carriera è costellata di bellissimi esercizi filmici, in particolare, le escursioni nell’universo femminile, da Adua e le compagne (1960) -come si fa a dimenticare Simone Signoret camminando disperata sotto la pioggia lungo il Porto di Ripa Grande?- a La parmigiana (1963), da La visita (1963) -nessuno ha diretto Sandra Milo come lui- a Io la conoscevo bene (1965).
In Fantasmi a Roma, il meglio della scuola Pietrangeli fiorisce in un terreno, il fantasy, tradizionalmente poco fertile per la commedia italiana, e riesce a costruire un palcoscenico delle meraviglie, visto il taglio teatrale dell’opera, che magnetizza l’attenzione dello spettatore dal monologo iniziale del principe Annibale di Roviano; a impersonarlo, tra mattoni spaccati e pappagalli imbalsamati, è Eduardo De Filippo, che aveva già rivendicato la dignità dell’aldilà sul grande schermo con la trasposizione filmica di Questi fantasmi nel 1954.

Don Annibale è il proprietario, nonché unico inquilino in carne e ossa, di una vecchia dimora nel cuore di Roma (gli esterni sono quelli di Palazzo Gambirasi, a un passo da Piazza Navona); gli altri padroni di casa sono i fantasmi di quattro antenati, che solo lui conosce, anche se non li ha mai visti: nessuno può farlo, se non in pericolo di vita o post mortem. Quattro Roviano “crepati di morte violenta, perché se uno muore bello, tranquillamente, nel letto di casa sua, può fare i salti mortali: fantasma non ci diventa”.
Sono il fratellino Poldino (Claudio Catania), vittima di un’esplosione di fuochi d’artificio a inizio del ‘900, l’ottocentesca donna Flora (Milo), buttatasi da ponte Cestio per amore, Reginaldo (Marcello Mastroianni), Casanova di fine Settecento, caduto dal balcone di una fornaia, e fra Bartolomeo (Tino Buazzelli), morto nel 1653, dopo aver mangiato delle polpette avvelenate, preparate dal padre guardiano del convento come esca per i topi (“E pensare che fui proprio io a dirgli che dovevano essere i sorci a fare piazza pulita in dispensa…”).
La loro quotidianità, scandita da giornali sgualciti, trattorie di fiducia e liti con lo stagnaro, viene spezzata dalla morte del principe: con l’arrivo dello squattrinato Federico (secondo dei tre ruoli di Mastroianni), nipote e unico erede, gli speculatori toccano finalmente con mano la possibilità di demolire il palazzo. L’unica speranza per fermare lo sfratto è Giovan Battista Villari, il Caparra (Vittorio Gassman), pittore eretico morto sul rogo e coetaneo di fra Bartolomeo (“Che bisogno c’è di bestemmiare? È UN VIZIO!”), che dovrà dipingere un affresco sul soffitto in una notte.

Sì, Fantasmi a Roma è l’esplosione del meglio della produzione Pietrangeli. Il cast quasi miracoloso ci porta a spasso per una Roma, per un’Italia, incantata dalla menzogna del boom economico e tesse una commedia irresistibile (ecco la parola d’ordine per tutti gli aspetti del film), estremamente elegante, leggera solo in apparenza, che nasconde (mica tanto) una bomba a orologeria pronta a esplodere nel ventre della modernità più rozza e imbizzarrita, creando un involontario e geniale dittico con L’impiegato di Gianni Puccini, uscito in sala pochi mesi prima.
Ancor di più, Fantasmi a Roma è la cartina al tornasole dell’immensità del cinema italiano, di un modo di intendere il mestiere perso per sempre. La sceneggiatura ironica e brillante, tenera ed emozionante, a tratti squisitamente feroce (in calce c’erano le firme, oltre a quella di Pietrangeli, di Flaiano, Scola, Maccari e Amidei) vola sulle note di Nino Rota e Armando Trovajoli e si adagia su una delle fotografie più deliziose di Giuseppe Rotunno. “Nel cinema, come nella vita”, diceva il maestro, recentemente scomparso, “la luce è tutto”. E anche oltre.
Perché la luce del film è una battaglia di creatività tra la sfera terrena -satura, meravigliosamente innaturale- e la sfera spettrale -grigia, brillante-, che crea delle scene cariche di suggestioni oniriche, compresa la veduta notturna dei tetti capitolini transitati dagli spiriti, testimoni della svendita di una civiltà in balia di un’edilizia sfrenata (con buona pace del Caparra, ormai al sesto sfratto), anche se Pellegrino Rossi aveva garantito a fra Bartolomeo che “i permessi per quella specie di mercato generale non glieli possono dare”.

Ciò che l’avvocato di Pio IX non conosceva era il “trucco del garage”: mazzette a volontà, nascoste nelle repliche del mostruoso “supermercato a quattro piani, il più grande d’Europa” chiamato a soppiantare palazzo Roviano, che girano di ufficio in ufficio fino alla firma finale. Fantasmi a Roma non è una critica vuota della modernità (“Non ho niente contro il progresso”, dice Nino Manfredi ne L’impiegato, “mi fanno paura i progressisti, anzi, i fanatici”), ma la denuncia di un male profondo: “la fiaccola dell’ignoranza” che “ha appiccato fuoco al mondo”. Caparra dixit.
Un nervo scoperto, oggi come sessant’anni fa: la corruzione galoppante che, dalla pubblica amministrazione al mondo della cultura (basti ricordare l’eccezionale sequenza in cui i critici esaminano l’affresco), si mangia memoria e dignità, mentre sguazza nell’arrivismo, nel consumismo selvaggio e nella volgarità (una capatina al City Song di Eileen (Belinda Lee) per firmare il contratto?). Una favola preziosa, che ci ricorda l’importanza di non tagliare il cordone ombelicale che ci unisce a tutto ciò che eravamo, a tutto ciò che siamo.
Così la vita ci travolge proprio durante la morte del principe, con i suoi antenati a dargli il benvenuto nell’altro lato della Storia e Poldino al capezzale. Solo lui non farà “la fine der sorcio”, assicura Regina (Lilla Brignone), Cassandra vagabonda per via della Pace. Forse si salverà anche Federico, se si ricorda di essere un principe. E no, non ha niente a che vedere con il colore del sangue perché Fantasmi a Roma è una lettera d’amore al cinema e al teatro, a Roma e all’Italia, all’arte e alla vita, anche se non sappiamo distinguere un Caravaggio da un Caparra.

Fantasmi a Roma
Un film di Antonio Pietrangeli, 1961. Italia, Lux Film – Vides Cinematografica – Galatea Film. 101′, colore.
Soggetto: Antonio Pietrangeli, Ennio Flaiano, Ettore Scola, Ruggero Maccari, Sergio Amidei. Sceneggiatura: Antonio Pietrangeli, Ennio Flaiano, Ettore Scola, Ruggero Maccari. Interpreti: Antonella Della Porta, Belinda Lee, Bruno Scipioni, Claudio Catania, Claudio Gora, Duilio D’Amore, Eduardo De Filippo, Enzo Cerusico, Enzo Maggio, Franca Marzi, Graziella Galvani, Ida Galli, Lilla Brignone, Marcello Mastroianni, Mario Maresca, Sandra Milo, Tino Buazzelli, Vittorio Gassman. Fotografia: Giuseppe Rotunno. Effetti speciali: Franco Corridoni. Montaggio: Eraldo Da Roma. Scenografia: Mario Chiari, Vincenzo Del Prato. Musiche: Armando Trovajoli, Nino Rota.
“Mi hanno licenziato. Con i più cordiali saluti, ma mi hanno licenziato!”: