Ivan Rassimov (Trieste, 7 maggio 1938 – Roma, 14 marzo 2003) ne Lo strano vizio della signora Wardh. Sergio Martino, 1971.

Quello di Ivan Rassimov è stato uno dei volti più affascinanti del cinema italiano. E non solo: alla bellezza felina, selvaggia e oscura, si aggiungevano un’eleganza carnale, a tratti diabolica, una presenza scenica mesmeriana e un’ammirevole versatilità. Protagonista abituale dei fotoromanzi, Mario Bava ne intuì la bravura e lo tolse dalle grinfie dello sceicco bianco per dargli il primo ruolo di spessore in Terrore nello spazio (1965).

Da allora e per ben due decenni, Ivan partecipò a mezzo centinaio di film, diventando un pilastro fondamentale di alcuni dei generi più gloriosi e deturpati dalla Critica®, oggi vergognosamente dimenticato da un mercato ingrato e pretenzioso come pochi. A vent’anni dalla sua scomparsa, rendiamo omaggio a un uomo e a un attore straordinario attraverso dieci titoli imprescindibili e, come lui, squisitamente irresistibili.

Ivan Rassimov in 10 film (I)

1. Terrore nello spazio

E non potevamo che cominciare dal nonno di Alien (Ridley Scott, 1979). Dopo una comparsata in Super rapina a Milano (1964), a maggior gloria di Adriano Celentano, Ivan fece una svolta copernicana nel suo (vero) esordio cinematografico: il comandante Carter, membro di una spedizione intergalattica costretta a rispondere alla richiesta di soccorso di un pianeta teoricamente disabitato, in quella che è la punta di diamante del patrimonio fantascientifico italiano, nonché un manuale dell’orrore in pieno stile Mario Bava, dove castelli, boschi e vampiri si trasformano in astronavi, inferni danteschi spaziali e alieni obbligati a parassitare i corpi dei loro ospiti per sopravvivere.

Una sceneggiatura contorta al punto giusto, tratta dal racconto Una notte di 21 ore di Renato Pestriniero e scritta a sei mani da Bava, Alberto Bevilacqua e Callisto Cosulich, un misurato crescendo di tensione, fino al colpo di scena finale, e un mestiere sconfinato per sovrapporsi al budget ridotto all’osso (chi dice polenta, dice lava): tra echi, rumori, luci accecanti e minacce invisibili, Ivan ripercorre, in smagliante Technicolor, una dimensione onirica asfissiante, dove niente è ciò che sembra, ovverosia una di quelle atmosfere fatte su misura per lui. Attore e regista si rincontrarono in simili circostanze, ma sulla Terra, nell’ultimo gioiello del maestro: Schock (1977).

2. I vigliacchi non pregano

Per una carriera in decollo negli anni ’60, andare in perlustrazione nei domini del western all’italiana era quasi d’obbligo. Ivan -nome d’arte: Sean Todd– lo fece in cinque occasioni: Cjamango (Edoardo Mulargia, 1967), Non aspettare Django, spara (Mulargia, 1967), con la sorella Rada, Se vuoi vivere… spara! (Sergio Garrone, 1968) e La vendetta è un piatto che si serve freddo (Pasquale Squitieri, 1971), accanto a Klaus Kinski. Ma il titolo più interessante, ancora oggi incomprensibilmente trascurato, della sua avventura con colt e stivali è I vigliacchi non pregano (Mario Siciliano, 1968), faccia a faccia con un sartaniano (della prima maniera) Gianni Garko.

Un magnifico racconto di fratelli e amici che, ognuno a modo suo (l’integerrimo Daniel / Rassimov, l’imprevedibile Bryan / Garko, il mite Robert / Roberto Miali), tentano di dimenticare gli orrori della Guerra di secessione. Sulle orme della vera storia di Pat Garrett e Billy Kid, il film ripercorre i topoi del genere senza banalità e con grande ritmo narrativo, approfondendo garbatamente nella psicologia dei protagonisti per mettere in luce, con influssi shakespeariani e biblici, le ferite personali e sociali del trauma bellico. Pochi mesi dopo, Ivan si mise di nuovo agli ordini di Siciliano per girare una “sporca dozzina” di ambientazione congolese: Sette baschi rossi (1969).

3. Soledad

Da gioiello a gioiello, dopo l’incorruttibile sceriffo texano arrivò il cavaliere spagnolo Carlos Alcántara di Soledad. Chi può condannarla? / Esa mujer (1969), che il triestino ricordava divertito come il suo unico ruolo da buono senza zone d’ombra. In questa (benedetta) capatina iberica, Ivan si mise davanti alla cinepresa di Mario Camus per girare una storia scritta dalla penna raffinata e sensuale di Antonio Gala: nella Spagna di fine Ottocento, la famosa cantante Soledad Romero (una divina Sara Montiel) viene accusata di omicidio e il suo amante -il nostro, bello e innamorato più che mai- diventa il principale tassello di un rompicapo che potrebbe portarla al patibolo.

Pedro Almodóvar assicura che Esa mujer (“Quella donna”), al quale rende omaggio ne La mala educación (2004), fu uno dei titoli che consolidarono il suo amore per il cinema. Niente di strano: si tratta di un sublime melodramma musicale giallo capace di mescolare Narciso nero (Michael Powell, Emeric Pressburger, 1947) con Tutti insieme appassionatamente (Robert Wise, 1965), uno spettacolo visivo che ricorda i migliori deliri cromatici di Bava e Roger Corman, antesignano della rivoluzione estetica e argomentale della movida. Ivan diceva di preferire i cattivi perché “la faccia mi aiuta”: sì, è vero che essi sono sublimi, ma non è meno certo che i suoi buoni sono divini.

4. Lo strano vizio della signora Wardh

Un trittico targato Sergio Martino spalancò le porte del nuovo decennio: oltre alla tormentata Julie Wardh (1971), Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972) e Tutti i colori del buio (1972). Tre thriller solcati da venature gialle e horror, tre straordinari ruoli per un Rassimov che sfoggia con una naturalezza specialmente insolente la sua capacità di far deflagrare l’obiettivo della cinepresa. In particolare, il Jean de Lo strano vizio della signora Wardh, figlio del genio creativo di Ernesto Gastaldi, fa saltare il banco come vertice perverso di un quadrato -assieme a lui, Edwige Fenech, George Hilton e Alberto de Mendoza– di bugie, erotismo e ambizione.

Il fisico spettrale, già dalla prima apparizione sotto la pioggia e sopra una Fenech imperiale, lo sguardo felino, i modi carnali e quel ghigno che a momenti diventa diabolico: Jean, detonatore della lussuria e delle passioni represse della protagonista, si siede tra la realtà e il sogno l’incubo, al tempo stesso oscuro oggetto del desiderio e retaggio di un passato che torna a galla in modo talmente spietato da mettere a repentaglio presente e futuro. L’anima, in definitiva, bella, sporca e cattiva non soltanto di uno dei capolavori di Martino, ma anche di una delle colonne portanti del nostro thriller, quella che inaugurò la “terza via” tra gli universi di Umberto Lenzi e Dario Argento.

5. Un bianco vestito per Marialé

In questa terza via -letta, però, in maniera profondamente personale- si incastona una perla a tutt’oggi seminascosta tra le pagine del vademecum giallo patrio. Nel 1972, Romano Scavolini diresse Un bianco vestito per Marialé, che mima l’impianto narrativo de Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, compresi i protagonisti maschili, Ivan e Luigi Pistilli: Marialé (un altro volto imprescindibile del genere, Ida Galli), tenuta segregata in una goticheggiante villa dal marito Paolo / Pistilli, riesce a contattare un gruppo di amici, tra cui la sua vecchia fiamma Massimo / Rassimov. Ma il raduno sfocerà in una decadente festa in maschera costellata di eccessi e morti.

Scavolini e Giuseppe Mangione, padre del fondamentale proto-giallo Ipnosi (Eugenio Martín, 1962), disegnano un gioco al massacro che mescola traumi infantili, omicidi feroci, sotterranei a lume di candela e riflessioni pirandelliane in un’atmosfera oppressiva capace di bere sia da Luis Buñuel -un po’ Viridiana (1961), un po’ L’angelo sterminatore (1962)- sia da Emilio Miraglia (La notte che Evelyn uscì dalla tomba, 1971), per poi passare ai Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Il tutto con avvincente audacia tecnica e sulle meravigliose note di Fiorenzo Carpi e Bruno Nicolai. Siccome sarebbe imperdonabile fare spoiler, c’è solo da dire: tanto di cappello, signor Rassimov.

Ivan Rassimov in 10 film (II)

IVAN RASSIMOV IN DIECI FILM (II)