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È difficile parlare di Klaus Kinski senza cadere nell’agiografia, ma qualsiasi tentativo di sminuire il fatto che sia stato uno dei fenomeni più affascinanti mai conosciuti dal cinema rasenterebbe l’eresia. Prodigio alchemico dallo sguardo umanamente proibitivo che, come Ingmar Bergman disse di sé stesso, viveva nel suo pianeta e ogni tanto faceva una visita alla realtà, Klaus Günter Karl Nakszynski tracciò sul grande schermo un solco senza eredi. Quarant’anni di attività artistica, inoltre, intimamente legata al nostro Paese, dove girò una cinquantina di film: in Italia la sua carriera cominciò a prendere il sopravvento -tra i primissimi ruoli, un’apparizione non accreditata ne La paura di Roberto Rossellini (1954)- e in Italia ne scrisse l’ultimo atto, Kinski Paganini (1989).
Klaus Kinski e il cinema italiano (I): il western.
Klaus Kinski e il cinema italiano (II): l’orrore.

Il nostro esordì nell’orrore patrio nel 1971. Allora aveva già fatto qualche egregia incursione nel genere -compreso un Renfield mozzafiato ne Il conte Dracula di Jesús Franco (1970)- e, per quanto riguarda l’Italia, girato una straordinaria manciata di western; tra di essi, lo “spaghetto gotico” E Dio disse a Caino (1970), firmato da Antonio Margheriti. Un anno dopo, la coppia si diede di nuovo appuntamento Nella stretta morsa del ragno, rifacimento a colori della vecchia Danza macabra (1964) del regista romano: Alan Foster, scettico giornalista americano a Londra, accetta di passare la notte del 2 novembre in un castello per comprovare se i racconti di Edgar Allan Poe, come il proprio scrittore gli ha confessato, sono tratti da esperienze vere.
Horror gotici puri, entrambi i film furono girati in stile televisivo, con varie cineprese attive simultaneamente per accorciare la durata delle riprese. Nella stretta morsa del ragno segue con fedeltà, a eccezione del finale, la sceneggiatura originale scritta da Sergio Corbucci (che, per problemi di agenda, non ne assunse la regia) e, anche se Margheriti preferiva la prima versione della storia, la partita non è così scontata come potrebbe sembrare. Danza macabra ha certamente dei punti di forza imbattibili: la presenza dei nostri signori dell’orrore Barbara Steele e Arturo Dominici, superiori ai suoi “eredi” Michèle Mercier e Peter Carsten, l’onirico bianco e nero di Riccardo Pallottini e una durata più contenuta, quasi mezz’ora in meno, senza inutili lungaggini.
Nella stretta morsa del ragno. Antonio Margheriti, 1971.
Nella stretta morsa del ragno, però, troviamo Anthony Franciosa nei panni del giornalista, al quale dona una presenza scenica maggiore di quella di Georges Rivière, in risalto nel citato finale alternativo, antesignano di uno dei più celebri di Dario Argento. Inoltre, il Technicolor di Sandro Mancori ha un fascino innegabile e il mestiere di Margheriti si traduce nella solita atmosfera di eleganza, tensione e soave erotismo. Ma, poche sorprese, è il personaggio di Poe a far saltare il banco: sebbene in Danza macabra Silvano Tranquilli ne faccia un garbato ritratto, non ci sono paragoni possibili con Kinski, che aveva appena indossato le vesti di un altro scrittore, il Marchese di Sade, in Justine, ovvero le disavventure della virtù (Franco, 1969).
Baffi biondini e occhi azzurr(issim)i: Kinski non fa Poe, fa Kinski, e nel farlo dà vita a quello che probabilmente sia il Poe più memorabile della settima arte. Una ventina di minuti, ovvero l’apertura (l’incontro con Foster, la scommessa) e la chiusura (il ritorno nella dimora all’alba per conoscere l’esito della sfida) del film, gli bastano per segnarlo a fuoco; anzi, sarebbe bastato l’incipit fulmineo, che lo vede febbricitante in cerca della tomba di Berenice sulle scarne note gotiche di Riz Ortolani. Con una credibilità sovrumana, Klaus rende tangibile il delirio di un uomo al bordo dell’abisso e ci intrappola assieme a lui in una morsa di orrore, amore e follia. Un uragano dal quale lo spettatore si riprende a stento. (Per)versioni cinefile belle e buone.
La bestia uccide a sangue freddo. Fernando Di Leo, 1971.
Sempre nel 1971, Poe lasciò il posto a Francis Klay, dottore nella lussuosa casa di cura per sole donne del professor Osterman (John Karlsen), dove un incappucciato comincia a mietere vittime nei modi più efferati. La bestia uccide a sangue freddo è un delirio erotico-esotico-psicotico girato a malincuore da Fernando Di Leo: per motivi strettamente economici, accettò un progetto che voleva cavalcare l’onda del successo de L’uccello dalle piume di cristallo (1970) e il risultato fu una sorta di parodia in chiave horror-thriller-pornosoft dell’universo di Argento. Come si fa a non annoverare tra i punti più alti del cinema italiano una clinica psichiatrica piena zeppa di strumenti di tortura, compresa una vergine di Norimberga, a portata di mano?
Per dettagli come questo, “la bestia” è diventata stracult, ma il regista non lo amava particolarmente e la verità è che si tratta di una scatola confezionata con efficacia -menzione d’onore alla (sempre) eccezionale fotografia di Franco Villa-, dentro della quale, però, troviamo una sceneggiatura-canovaccio in cui le ricerche per svelare l’identità dell’assassino non sono altro che una costellazione di nudità femminili, masturbazioni in primo piano e altre mirabilia. La ciliegina sulla folle torta è Klaus, che passeggia, guarda, fuma e chiacchiera (basta così), una presenza torbida e ipnotica che si confà morbosamente all’atmosfera del film. Inoltre, Di Leo era alle porte della trilogia del milieu, dunque gli perdoniamo questo bizzarro giro di giostra, eccome.
La morte ha sorriso all’assassino. Joe D’Amato, 1973.
Da mostro sacro a mostro sacro e da medico a medico, Klaus ritornò nel regno di tenebre di Poe ne La morte ha sorriso all’assassino (1973), primo horror in solitario di Joe D’Amato e unica occasione in cui firma con il suo vero nome, Aristide Massaccesi. Come a Di Leo, anche al regista romano veniva stretto il gioco “orrore comanda colore… argento” e, quando il gotico era agli sgoccioli, ne ripercorse tutti i topoi. Un incidente in carrozza, una strana coppia che ospita nella sua dimora una giovane in stato catatonico, una vecchia maledizione, un’iscrizione da decifrare, doppelgänger e spiriti: ben attento alle lezioni di Mario Bava e Massimo Pupillo, D’Amato prende l’anima del genere e la scarnifica, disegnando un prodotto dalla mirabile modernità tecnica.
In poche parole, un viavai di zoom, grandangoli e inquadrature dal basso che convivono con il “canone Massaccesi”: erotismo sfacciato, fotografia splendida, violenza grafica. Al centro di un microcosmo claustrofobico, Kinski si mostra di nuovo a suo agio indossando il camice bianco -in quest’occasione, quello del dottor Sturges, disposto a tutto per scoprire il segreto della vita dopo la morte- e trasformandosi in una delle colonne portanti di un film che rimanda al Frankenstein di Mary Shelley, alla Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu e, soprattutto, a Poe, in particolare alla fonte inesauribile di ispirazione de Il gatto nero (pochi mesi prima, Sergio Martino aveva girato Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave) e a La maschera della Morte rossa.
Quest’avvolgente ricchezza argomentale si traduce in una sceneggiatura a tratti confusionaria, con certe prolissità e analessi ingarbugliate che penalizzano, sebbene non in maniera fatale, un’opera ad ogni modo affascinante, che ci regala non soltanto un Klaus sobrio, elegante, in equilibrio tra l’amore e la morte, ma anche un finale strabiliante, talmente bello e spiazzante che Dan Curtis lo adotterà in Ballata macabra (Burnt Offerings, 1976), uno dei più bei gioielli cinematografici (e letterari: prende spunto dal romanzo omonimo di Robert Marasco) horror del periodo, incredibilmente sottovalutato / misconosciuto ancora oggi, con sua maestà Oliver Reed e la divina Bette Davis. Tanto di cappello, di cranio e di tutto, Aristide.
La mano che nutre la morte. Sergio Garrone, 1974.
Nel 1974, Klaus si mise agli ordini di Sergio Garrone, penna storica dello spaghetti western, per offrirci un “2 x 1 in Kinski scienziato matto”. La mano che nutre la morte e Le amanti del mostro sono, in teoria, due horror fantascientifici indipendenti; in realtà, dovremmo parlare di un film a due episodi, girati contemporaneamente, con lo stesso cast tecnico e artistico, usciti in sala con due mesi di differenza. Un’opportunità sprecata perché, sebbene non apportino niente di nuovo al filone, un minimo sindacale di cura avrebbe fatto di loro due racconti efficaci, particolarmente godibili grazie alla presenza di un Kinski in grande smalto, ancora una volta intrappolato nei confini tra la vita e la morte, all’interno di un’interessante riflessione sui limiti morali della scienza.
In coppia protagonista bellissima e dannatissima con Katia Christine, meravigliosamente doppiato da Sergio Graziani e con la scorta degli effetti speciali della ditta Rambaldi, ne La mano che nutre la morte il suo dottor Nijinski si imbatte in una brutale serie di trapianti di pelle per far recuperare la bellezza a sua moglie, rimasta sfigurata dopo un terribile incidente. Un ibrido tra il padre del gotico italiano, I vampiri di Riccardo Freda (1957), gli Occhi senza volto di George Franju (1960) e L’abominevole dr. Phibes di Vincent Price (Robert Fuest, 1971). Molto simile il canovaccio de Le amanti del mostro, nel quale fanno apparizione anche le teorie di Mesmer, il dottor Frankenstein, il dottor Jekyll, mister Hyde e la licantropia.
Ma tutte queste premesse annegarono in un fiume di vicissitudini produttive che sfocciò in un mare di buchi di sceneggiatura, esilaranti tocchi erotici, montaggi irriferibili, attori di contorno scarsi e figuranti turchi spaesati. Ancor di più, la “peluria di mezzi” (cit.) costrinse la produzione a riciclare scenografie western per allestire quello che avrebbe dovuto essere un paesino russo di fine Ottocento e a riutilizzare diverse scene, aggiustando i dialoghi in fase di doppiaggio. E, se mancava qualcosa, Klaus sbroccò (sorpresa!) e abbandonò il set, venendo sostituito da un figurante -sempre ripreso di spalle- nelle scene mancanti, brulicanti di primi piani dell’attore polacco con la vana speranza di dare parvenza di continuità alla storia. Roba da gestire con responsabilità.
Le amanti del mostro. Sergio Garrone, 1974.
E poi, un decennio di silenzio: Klaus non tornò nei domini dell’orrore italiano fino al 1985, con quello che sarebbe stato il suo penultimo film, Nosferatu a Venezia. Nel frattempo, il glorioso sodalizio con Werner Herzog aveva preso forma quasi definitiva: dopo Aguirre (1972), Nosferatu (1978), Woyzeck (1979) e Fitzcarraldo (1982), mancava soltanto Cobra verde, che riuscì, tuttavia, a uscire in sala nel 1987, un anno prima della conflittuale creatura veneziana. Un ritardo inevitabile in un suicidio produttivo capeggiato da Augusto Caminito, il quale, sfidando il più elementare senso del ridicolo, si mise in testa di girare una storia di vampiri più ambiziosa del capolavoro di Herzog, con il quale ha in comune il nome e la presenza di Kinski.
Qualsiasi altra somiglianza, anche remot(issim)a, tra i due film è inesistente. Si trattava di una battaglia persa in partenza non soltanto per i sopraddetti deliri di grandezza, ma anche perché Kinski non era più un attore problematico o ribelle, bensì un uomo del tutto ingestibile, in balia dei propri demoni, che prese in mano il progetto, davanti e dietro la cinepresa, facendone un incubo per tutta la troupe. Fino a sei registi furono coinvolti nelle riprese: Maurizio Lucidi, considerato troppo mestierante dall’invogliata produzione, Pasquale Squitieri e Mario Caiano (entrambi avevano diretto Klaus in un paio di western e anche sul nuovo set sfiorarono la rissa), Luigi Cozzi, un Caminito disperato per recuperare qualche soldo e, appunto, Kinski in persona.
Nosferatu a Venezia. Augusto Caminito, 1988.
Il risultato è un film penalizzato da una regia impersonale e dai costanti rimaneggiamenti della sceneggiatura, che rilegge in maniera involontariamente comica il mito del vampiro, evocato in una seduta spiritica da una nobile veneziana (Barbara De Rossi) e al quale crocifissi e specchi non fanno più impressione. Ritmo di oltretomba, dialoghi terribili e vicende sconclusionate che nemmeno un cast di rispetto (Donald Pleasance, Christopher Plummer) riesce a tenere a galla. Almeno, non “da solo”: c’è lui -croce e delizia, vie di mezzo non pervenute-, Nosferatu imbalsamato e iracondo, allucinato ed erotomane, in cerca di una vergine per consumare un rapporto sessuale che gli conceda il riposo eterno. C’erano commedie sexy con più filo argomentale? Sì.
Ma, anche se Klaus è protagonista di momenti di non trascurabile demenza tecnica ed estetica, c’è qualcosa di magico nel vedere svanirsi le frontiere tra l’uomo e la creatura, che trascina(no) il peso dell’immortalità per calli e campielli di una Venezia spettrale, ripresa prevalentemente all’alba per desiderio espresso del nostro. Quando mancava all’appello soltanto il collage allucinato e allucinatorio Kinski Paganini (1989), l’alchimista Nakszynski, avvolto nella nebbia della Laguna, con il viso solcato dalle rughe e uno sguardo che racchiude pazzia, malinconia e tormento, riuscì a trasformare una sconfitta filmica in una poesia decadente, dolente, magmatica. Nell’ultimo grande Kinski, nonostante tutto. Nonostante sé stesso.