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Quello di Ivan Rassimov è stato uno dei volti più affascinanti del cinema italiano. E non solo: alla bellezza felina, selvaggia e oscura, si aggiungevano un’eleganza carnale, a tratti diabolica, una presenza scenica mesmeriana e un’ammirevole versatilità. Protagonista abituale dei fotoromanzi, Mario Bava ne intuì la bravura e lo tolse dalle grinfie dello sceicco bianco per dargli il primo ruolo di spessore in Terrore nello spazio (1965).
Da allora e per ben due decenni, Ivan partecipò a mezzo centinaio di film, diventando un pilastro fondamentale di alcuni dei generi più gloriosi e deturpati dalla Critica®, oggi vergognosamente dimenticato da un mercato ingrato e pretenzioso come pochi. A vent’anni dalla sua scomparsa, rendiamo omaggio a un uomo e a un attore straordinario attraverso dieci titoli imprescindibili e, come lui, squisitamente irresistibili.
Ivan Rassimov in 10 film (I)
Ivan Rassimov in 10 film (II)
6. Si può essere più bastardi dell’ispettore Cliff?
Come abbiamo visto, Ivan spalancò le porte degli anni ’70 firmando un eccezionale trittico giallo in compagnia di un regista capitale nella sua filmografia, Sergio Martino. In un mercato cinematografico in piena effervescenza, l’attore triestino fece sfoggio di tutta la sua duttilità e saltò dal set de Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972) a quello di Si può essere più bastardi dell’ispettore Cliff? (1973), al ritmo della battuta di un altro nome chiave nel suo percorso, Massimo Dallamano, e come protagonista assoluto di una trama di intrigo internazionale a metà strada tra la vecchia tradizione dell’eurospy e il nascente poliziesco all’italiana.
Cliff Hoyst, agente della narcotici in incognito, si infiltra in un’organizzazione che gestisce un traffico di droga intercontinentale per scatenare una guerra interna tra i criminali allo scopo non proprio di difendere la legge. Ben accompagnato da Luciano Catenacci ed Ettore Manni, Rassimov risulta tagliato su misura per questo “poliziotto marcio” ante litteram, cinico incantatore doppiogiochista, che si destreggia in un’atmosfera ambigua, piena di fascino -il film venne girato tra Roma, Londra e il Libano-, con la giusta dose di ironia, sensualità e violenza, una bella fotografia dell’oscarizzato Jack Hildyard e musiche di Riz Ortolani. A proposito, la risposta è, ehm, no.
7. Spasmo
Prima, però, di ripercorrere la strada del poliziesco all’italiana puro, Ivan aveva ancora qualcosa da dire, eccome, nel giallo, per di più accanto a un altro regista decisivo per lui: Umberto Lenzi. Il toscano ereditò un progetto destinato a Lucio Fulci e, come di consueto, lo stravolse (quasi) completamente. Il risultato fu Spasmo (1974), una sorta di rivoluzionario epilogo sia della sua avventura gialla sia di quella di Rassimov. Dopo la trilogia Orgasmo (1969), Così dolce, così perversa (1969) e Paranoia (1970), Lenzi continuò a dissezionare ciò che denominava “il malessere di vivere in mezzo alla società dorata”, ma leggendo con assoluta libertà le coordinate del genere.
Spasmo rinuncia in maniera esplicita al sesso e al sangue per approfondire nella psiche in decomposizione di un paesaggio umano segnato dalla totale mancanza di moralità; condito con una curata messinscena, nonché con un(‘altr)a preziosa (e angosciante) colonna sonora di Ennio Morricone, Lenzi ci traghetta nei meandri di un complesso intreccio psicologico -tra Alfred Hitchcock, Franz Kafka e il Mario Bava de Il rosso segno della follia (1970)- che ripercorre il rapporto dei fratelli Baumann, Christian / Robert Hoffman e Fritz, un Rassimov maestoso, novello Roderick Usher, baricentro di un microcosmo di paranoie, traumi e morbosità con un finale impeccabile.
8. Quelli della calibro 38
E, mentre ardevano le strade del Paese, arrivò finalmente lo sbarco del nostro nel poliziesco all’italiana, appunto, puro. Il 1976 fu testimone di due titoli magnifici: ancora con Lenzi in Roma a mano armata, nei panni dello spacciatore Tony Parenzo, protagonista di un feroce faccia a faccia con il commissario Tanzi (ne abbiamo parlato nello speciale dedicato a Maurizio Merli), e ancora con Dallamano in Quelli della calibro 38. Ultimo film del regista, morto in un incidente stradale poche settimane dopo la fine delle riprese, ci catapulta in una Torino presa d’assalto dal Marsigliese / Rassimov, che minaccia di farla saltare in aria se la polizia non accoglie le sue richieste.
Come contraltare, il commissario Vanni / Marcel Bozzuffi, affiancato da una squadra speciale sul filo della legalità per dare caccia al boss-quasi-terrorista che ha disseminato 70 chili di dinamite per la città e con il quale ha anche un conto personale da regolare. Un racconto asciutto, coinvolgente, crudo -compreso qualche tocco documentaristico congeniale al periodo-, girato con classe e sicurezza, tecnicamente frizzante -memorabile la Fiat 127 rossa sopra un treno merci, ripresa da un vecchio spot- e suggestivamente fotografato da Gábor Pogány. Di più? Carol André appena divenuta “la Perla di Labuan” e Stelvio Cipriani e Grace Jones alla colonna sonora.
9. Mangiati vivi!
Lenzi non andava fiero dei cannibal movie, ma sono una tappa indispensabile della sua carriera, di quella di Ivan e del cinema italiano. Tra molte altre cose, perché furono proprio lui e Rassimov a inventarlo ne Il paese del sesso selvaggio (1972). Il film, che non circolò in maniera dignitosa fino a qualche anno dopo, è una versione birmana e acquatica di Un uomo chiamato Cavallo (Elliot Silverstein, 1970), ma accenna quelli che diventeranno i segni d’identità del filone: Me Me Lai, splatter a volontà, immagini rivoltanti di animali uccisi, bizzarri accoppiamenti sessuali e, giustamente, cannibalismo, in questo caso, una sola scena, poi riciclata in Mangiati vivi! (1980).
Nella benedetta anarchia lenziana, Mangiati vivi!, girato nello Sri Lanka, mescola un incipit poliziesco, elementi avventurosi e i topoi cannibali con fatti di cronaca, prendendo spunto dall’allora recente “massacro della Guyana”. Al centro della storia, il reverendo (si fa per dire) Jones / Rassimov, capo di una comunità utopistica sperduta nella giungla e governata con mano di ferro fino all’arrivo di pericolosi elementi “civilizzati”. Grande ritmo, cinepresa nevrotica, atmosfera malata relativamente contenuta e un Ivan gigante come santone millenaristico, tra sadismo e deliri biblici, dal sapore kinskiano. Quel grammofono che rompe il silenzio della fine del mondo…
10. I predatori di Atlantide
Mettete in un calderone targato Ruggero Deodato -un po’ post-apocalittico, un po’ avventuroso, un po’ fanta-archeologico, un po’ “ricordatevi perché sono monsieur Cannibal”- questi ingredienti: una tavoletta precolombiana, Atlantide riemersa per colpa delle radiazioni atomiche di un sommergibile sovietico affondato su una piattaforma oceanica al largo della costa di Miami e una squadra di simpatici reduci del Vietnam e teneri scienziati spaesati che devono recuperarlo, facendo fronte a uno spietato gruppo di sopravvissuti nucleari presi in prestito da Mad Max, decisi a riconquistare la Terra. Questo delizioso delirio esiste e si intitola I predatori di Atlantide (1983).
Ambientato nell’allora lontano, ma non troppo, 1984, il film è un concentrato di azione pura, violento e ironico, girato con estro e maestria tecnica, nonostante gli sprazzi demenziali causati dal budget irrisorio, sulle note inconfondibilmente anni ’80 di Guido e Maurizio De Angelis e con un catalogo di “volti del genere”: oltre al nostro, George Hilton (è un piacere rivederli insieme dopo le schermaglie gialle), Christopher Connelly, Tony King. Un omaggio ideale alla cosiddetta “serie B”, piena di sbavature e ingenuità, ma molto più autentica e coraggiosa della maggioranza della produzione cinematografica odierna, tesa a una spasmodica creazione di conformismo.
E, soprattutto, la perfetta chiusura del cerchio di un tale Ivan Rassimov, che cominciò lottando contro una razza aliena parassita e finì per salvare il mondo.