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Come fare un’unica escursione in un filone cinematografico e rivoluzionarlo, lasciandovi un’impronta indelebile? Citofonare Ruggero Deodato e Uomini si nasce, poliziotti si muore.

Uno sbarco, quello del regista lucano nel poliziesco all’italiana, che possiamo definire un tiro a carambola. Dopo alcune commedie e film d’avventura girati nella seconda metà degli anni ’60, Ruggero Deodato si dedicò alla televisione per un lungo periodo, fino al ritorno al cinema con Ondata di piacere (1975), dimenticabile thriller erotico che, però, riscosse un grande successo al botteghino, permettendogli di affrontare con piena libertà di azione il seguente progetto, ovvero il suo beniamino Uomini si nasce, poliziotti si muore (1976): “Per me, è stato graditissimo perché è un film poliziesco che ho potuto inoltre realizzare con tutte le mie scelte personali”.
Genio chiama genio, queste scelte includevano Fernando Di Leo alla penna e anche lui si mostrò sempre molto soddisfatto del risultato. Entrambi i cineasti sapevano muoversi all’interno dei generi senza rinunciare alle loro visioni effervescenti e Uomini si nasce, poliziotti si muore non è un’eccezione. La storia di Antonio e Alfredo (Marc Porel e Ray Lovelock), agenti speciali che mettono Roma sottosopra per dare caccia al boss biscazziere Roberto Pasquini (Renato Salvatori), mescola il meglio dei modelli americani con il filone patrio in maniera profondamente personale e anticonvenzionale, incoronandosi come uno dei polizieschi più affascinanti della stagione.
E già dall’inseguimento iniziale tra i nostri e due criminali capiamo la bomba ad orologeria che abbiamo fra le mani; girata per ultimo e in stile guerrilla -con gli stuntmen di Rémy Julienne in mezzo al traffico di Roma, senza autorizzazione del comune-, questa sequenza antologica à la The French Connection (William Friedkin, 1971) su due ruote ci regala la chiave di lettura del film: qui si agisce per far sparire i delinquenti, non per consegnarli alla giustizia. Da allora, con il tradizionale andamento a episodi, Antonio e Alfredo si imbattono in furti, sequestri di persona, bische, case d’appuntamento e sparatorie assortite mentre stringono il cerchio attorno a “Bibi”.
Ogni mossa, orizzontale o verticale, rigorosamente insieme, in un esempio di casting perfetto. “Più di tutto, mi piaceva la coppia”, ricordava Deodato. Porel, “una faccia straordinaria” (non saremo noi a dargli torto), era reduce da due gioielli –Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1972) e Tony Arzenta (Big Guns) (Duccio Tessari, 1973)- e aveva appena lavorato con Di Leo in Colpo in canna (1975). Per la quota bionda, dopo il provvidenziale rifiuto di Al Cliver, protagonista di Ondata di piacere, fu la non meno straordinaria faccia di Lovelock -bastione del poliziesco nostrano, fresco delle riprese di Roma violenta (Marino Girolami, 1975)- ad avere la meglio.
Il risultato? Un incrocio selvaggio e irresistibile tra Freebie e Bean, Jimmy Doyle e Buddy Russo e financo Starsky e Hutch: la serie era un successo negli Stati Uniti quando Uomini si nasce, poliziotti si muore uscì in sala e, per la sua avventura italiana, cominciata quattro anni dopo, ripescò gli stessi doppiatori, Manlio De Angelis / Porel per Paul Michael Glaser e Cesare Barbetti / Lovelock per David Soul. Insolentemente belli, anzi, insolentemente tutto, Antonio e Alfredo sono due figli ‘e ‘ntrocchia dalla faccia angelica che portano all’estremo e dissacrano la marea di squadre speciali e commissari di ferro del periodo con una naturalezza, un carisma e una complicità disarmanti.
Di Leo aveva persino accennato un rapporto ambiguo tra i due, simile a quello creato per Manolo / George Hilton e il Biondo / Klaus Kinski in Ognuno per sé (Giorgio Capitani, 1968), un’omosessualità latente azzerata (in teoria) durante stesura finale della sceneggiatura. Accanto a loro, ottimi Salvatori, Adolfo Celi, paternale commissario capo tra rimbrotti e rassegnazione, e Bruno Corazzari nei panni del malvivente Proietti, protagonista di un micidiale faccia a faccia con Porel, che avrebbe rincontrato pochi mesi dopo sul set di un altro capolavoro, Sette note in nero (Fulci, 1977). In ruoli minori, è un piacere vedere anche Marino Masè, Silvia Dionisio e Franco Citti.
Regia scarna, veloce e solida, attenzione al dettaglio, cura estrema di inquadrature e movimenti di macchina, come di consueto in casa Deodato: Uomini si nasce, poliziotti si muore è un modello di efficacia narrativa trainata da un letale gioco di contrasti. Basti pensare alla sopracitata sequenza iniziale: dalle note di Maggie -Lovelock in pieno stile Bob Dylan-, che risuonano per le strade di una Roma di fine dicembre, passiamo a Babbo Natale testimone di un fracassamento di cranio, il manubrio di un motorino che sventra un cattivo e l’osso del collo dell’altro cattivo spezzato. Il tutto davanti agli occhi serafici dei giustizieri: “Il mio è morto da solo / Al mio gli ho dato una mano”.
Scanzonato, efferato, naïf, cinico, ironico, provocatorio, mai machiettistico. Qui non c’è il commissario Betti a riflettere, curiosamente in dialogo con l’agente interpretato da Lovelock in Roma violenta, sull’esito incerto di un crescendo di violenza basato sulla legge del taglione, e non ci sono né quel bastardo dell’ispettore Cliff né il “poliziotto marcio” di Luc Merenda e Di Leo; difatti, l’agente corrotto di turno è un nemico aperto dei nostri. In altre parole, non cercate ambizioni occulte, vecchi conti personali da saldare o particolari, seppur discutibili, sensi della giustizia: Antonio e Alfredo combattono la malavita ad armi pari e godono nel farlo, senza porsi dilemmi etico-morali.
Uomini si nasce, poliziotti si muore è uno spettacolare concentrato di azione pura: dall’incendio nel parcheggio della bisca, compresa una morte che strizza l’occhio a quella dei traditori con cui si apre Milano calibro 9 (Di Leo, 1972), alla sparatoria nella cava, passando per l’occhio cavato a mani nude da uno degli scagnozzi di Bibi. Deodato aveva collaborato con Sergio Corbucci durante le riprese di Django (1966) e, memore dell’orecchio mangiato, “mi scatenai (…), dettagliai con molti particolari l’estrazione dell’occhio, poi il bulbo appena fuoriuscito, buttato nel pavimento, inquadrato con macro obiettivi e con una luce perfetta, schiacciato dal tacco di una scarpa”.
Ehm, non per caso, il film fu l’ultima sosta prima dell’avvio della stagione cannibale. La scena fu stroncata dalla censura, ma l’idea venne poi copiata da (sorpresa!) Quentin Tarantino in Kill Bill. Volume 2 (2004) ai danni di Daryl Hannah. Tocco splatter o meno (anche se probabilmente il non-vedo-ma-immagino della versione finale sia peggio, con la cinepresa che, nel momento clou, si sposta verso il viso ceruleo del boss), il film riscosse un enorme successo di pubblico, con 750 milioni di lire incassati in condizioni estreme, vale a dire, in concomitanza con il primo caso di Nico Giraldi, Squadra antiscippo, che face saltare in aria il botteghino italiano nella primavera del 1976.
Per molto tempo, la possibilità di girarne un seguito galleggiò nell’aria, ma il progetto non si concretò. Meglio così: veni vidi vici, la leggenda di Uomini si nasce, poliziotti si muore era oramai scritta. E, se abbiamo cominciato parlando di carambole, finiamo anche parlando di carambole: davanti a un paio di farabutti insanguinati appesi per i polsi, come se fossero nella vetrina di una macelleria, Antonio e Alfredo giocano una partita a carte che rende omaggio alla partita a biliardo del primo Fantozzi (Paolo Villaggio, 1975). E, siccome Deodato non è l’Onorevole Cavaliere Conte Diego Catellani, non ci sono dubbi: “Questo non è culo, questa è (pura) classe” (semicit.).
Uomini si nasce, poliziotti si muore
Un film di Ruggero Deodato, 1976. Italia, C.P.C. Città di Milano – T.D.L. Cinematografica. Colore, 97′.
Soggetto: Alberto Marras, Fernando Di Leo, Vincenzo Salviani. Sceneggiatura: Fernando Di Leo. Interpreti: Adolfo Celi, Alvaro Vitali, Bruno Corazzari, Claudio Nicastro, Daniele Dublino, Franco Citti, Marc Porel, Marcello Monti, Margarita Horowitz, Marino Masè, Ray Lovelock, Renato Salvatori, Sergio Ammirata, Silvia Dionisio, Sofia Dionisio, Tom Felleghy. Fotografia: Guglielmo Mancori. Montaggio: Gianfranco Simoncelli. Scenografia: Franco Bottari. Musiche: Ubaldo Continiello; le canzoni Maggie (Ray Lovelock) e Won’t Take Too Long (Michael Fraser, Ruggero Deodato) sono interpretate da Ray Lovelock.
Dichiarazioni tratte da: intervista a Ruggero Deodato, Italian Horror Fest 2013; intervista a Ruggero Deodato, “Poliziotti violenti” (Uomini si nasce, poliziotti si muore, Dynit Raro Video, 2014).