George Eastman in Rosso sangue. Joe D’Amato, 1981.

Nella primavera del 1980, il regista Joe D’Amato -al secolo Aristide Massaccesi– e l’attore e sceneggiatore George Eastman -al secolo Luigi Montefiori-, diedero alla luce Antropophagus, storia di un uomo con peculiari gusti culinari che vede la quiete della sua isoletta dell’Egeo messa a repentaglio dall’arrivo di un gruppo di turisti, erroneamente inserita, nonostante le apparenze, nel filone del cannibal movie. Un anno dopo, mentre continuava a seminare perle “esotico-erotiche”, tra cui Le notti erotiche dei morti viventi e Porno Holocaust, D’Amato volle cavalcare il morbo generato da un film ormai divenuto di culto e il risultato fu Rosso sangue.

Ma, anche se i distributori internazionali presero la palla al balzo e titoli come Antropophagus 2 o The Grim Reaper 2 camminarono di pari passo con l’ufficiale Absurd, non possiamo parlare di un seguito vero e proprio: dell’idea iniziale -il regista avrebbe voluto dare una sterzata soprannaturale al racconto, facendo sì che il cannibale risorgesse affamato dalla tomba- ne rimase poco nel progetto definitivo, anzi, quasi niente, al netto degli illustri demiurghi e di qualche simbolica strizzata d’occhio argomentale, come il fondo greco delle opere. Entrambe formano, però, un dittico cinematografico perfetto, un incantevole portafoto doppio da mettere sul camino.

Come Lucio Fulci aveva collegato i suoi due capolavori con un nesso ideale -sia l’ultima scena di Non si sevizia un paperino (1972) che la prima di Sette note in nero (1977) vedono un corpo che cade da uno strapiombo-, così D’Amato unì i suoi due film con un succoso filo: Antropophagus finisce e Rosso sangue comincia con Eastman budella in mano. L’attore genovese interpreta due uomini normali, Klaus Wortmann e Mirkos Tanopoulos (o Nikos Stenopolis, a seconda del doppiaggio) rispettivamente, che subiscono un traumatico processo di “bestializzazione”, anche se per cause radicalmente opposte: endogene, il primo; esogene, il secondo.

Rosso sangue si accoda alla tradizione del rip-off all’italiana in un decennio di titoli leggendari, da L’ultimo squalo di Enzo G. Castellari (1981), finito nel mirino dei produttori de Lo squalo originale (Steven Spielberg, 1975) al Conan di Umberto Lenzi (Ironmaster. La guerra del ferro, 1983), passando per la ricca collezione firmata dal signore della scopiazzatura patria, Bruno Mattei. Film che davano il giusto giro di vite ai successi commerciali per farli diventare prodotti “nuovi”: basti pensare a Strike Commando (1987), dove un Mattei alla dottor Frankenstein assembla membra provenienti da Apocalypse Now, Rambo 2 e Mad Max oltre la sfera del tuono.

In quest’occasione, il punto di riferimento inequivocabile della penna di Eastman -il quale, come già accennato, scartò tutte le bozze iniziali- è Halloween. La notte delle streghe (1978), con cui John Carpenter e Debra Hill avevano dato fuoco al botteghino (appena 300000 dollari di budget, più di 70 milioni d’incasso) e fissato archetipi, cliché e tòpoi dello slasher classico: nell’arco di una notte che sembra infinita, il Male sotto forma umana comincia a mietere vittime in un’anodina città statunitense, trovandosi particolarmente comodo nel sottobosco di bambini, adolescenti e giovani donne, e soltanto una persona capisce la sua vera potenza distruttiva.

Se dietro Michael Myers c’era lo psichiatra Samuel Loomis (Donald Pleasence), in coppia con l’immancabile poliziotto scettico, dietro Tanopoulos c’è un prete greco senza nome, biochimico ed esorcista, sulla scia del padre Karras di Max von Sydow; a dargli vita, Edmund Purdom in vena di viscere: finite le riprese, l’attore inglese fece un salto in Spagna per girare Mil gritos tiene la noche / Pieces (Juan Piquer Simón, 1982), un altro slasher di culto che riutilizzò alcuni frammenti della colonna sonora di Rosso sangue. Nei panni del tutore della legge sull’orlo della pensione, il suo conterraneo Charles Borromel, come lui, da vent’anni attivo in Italia.

Il film, girato in tempi e budget ancora più ristretti di AntropophagusMichele Soavi, al suo esordio attoriale, si vide costretto a portare la motocicletta sul set: “Fu il colpo di fulmine con il cinema”-, ci strappa (in pieno stile Wortmann) da quell’universo macabro, sporco, ancestrale; in Rosso sangue non soffia nemmeno il vento morboso di Buio omega (1979): è un processo per direttissima che usa e oltrepassa l’impianto americano e i convenzionalismi dello slasher, tempestandoli di eccentricità, ingenuità, cinismo e umorismo nero, compresa la bambinaia che guarda Sesso nero, hard girato da D’Amato a Santo Domingo, come una regolare telenovela.

Un calderone di eccessi chiaramente riconoscibile e, al tempo stesso, profondamente personale, in cui tutto gira attorno al gigante Eastman, qui in versione acqua e sapone: Rosso sangue rinuncia al consueto mascheramento dell'”Uomo nero”, evidenziandone sembianze e origini sin dalle prime scene. Tanopoulos, dato per morto dalle autorità elleniche nel tentativo di placare l’opinione pubblica, è il prodotto di un test elettronucleare condotto dalla Chiesa, a causa del quale le sue cellule e tessuti sono in grado di rigenerarsi al triplo della velocità normale, ma in maniera difettosa, il che ha fatto di lui una macchina da uccidere pressoché perfetta.

Contrariamente al vedo-non-vedo di altri classici e persino ad Antropophagus, dove i momenti d’impatto, seppur feroci, sono scarsi, Rosso sangue disdegna le fughe di inquadratura. Catatonico e inesorabile, Tanopoulos batte un sentiero tracciato da un orefice della brutalità, intrattenendosi con trapani -scena ispirata dalla fulciana “trilogia della morte”-, seghe a nastro, asce e forni -tra le più raggelanti, si fa per dire, del film, ai danni dell’infermiera Emily (Annie Belle)-, con amore per le teste delle vittime. Un riferimento al proprio tallone d’Achille? Forse, e anche un’influenza di George A. Romero: difatti, un altro titolo alternativo è il bizzarro Zombie 6.

Se, nella prima parte, la storia sembra indirizzarsi verso il thriller sanguinoso, nella seconda, con i protagonisti asserragliati all’interno di una decadente villa borghese (località: Fiano Romano, per tradire completamente la radice europea della produzione), viene fuori tutto il mestiere di Massaccesi. Un incubo con una fotografia magnifica e un montaggio asfissiante, dove le pareti sembrano ripiegarsi su se stesse, sulle note distorte di Carlo Maria Cordio, anche lui al suo esordio filmico (“Aristide ha intravisto in me non la vena romantica che mi vanto di possedere, ma quella horror”), che bevono dal Sacro Graal dei Goblin, Profondo rosso (Dario Argento, 1975).

Un viaggio grandguignolesco in cui si succedono gli omaggi letterari, artistici e cinematografici, da Shining (Stanley Kubrick, 1980) a L’Odissea di Omero, da Carrie. Lo sguardo di Satana (Brian De Palma, 1976) a Giuditta e Oloferne, fino alla scena finale, tra le più raffinate e dissacranti del filone, ideale per coronare il miglior slasher puro del cinema italiano. E, se mancava qualcosa in questo delirio assurdo e geniale, il film Silent Rage / Terrore in città, diretto da Michael Miller e uscito in sala appena un anno dopo, copiò spudoratamente l’argomento del nostro Rosso sangue, con Chuck Norris come protagonista. Se non è arte questa…


Rosso sangue

Un film di Joe D’Amato, 1981. Italia – Panama, Filmirage – Metaxa. Colore, 89′ (versione italiana) – 94′ (versione internazionale).

Soggetto e sceneggiatura: Luigi Montefiori. Interpreti: Annie Belle, Charles Borromel, Cindy Leadbetter, Edmund Purdom, Goffredo Unger, Hanja Kochansky, Ian Danby, James Edward Sampson, Kasimir Berger, Katya Berger, Luigi Montefiori, Michele Soavi, Ted Rusoff. Fotografia: Joe D’Amato. Montaggio: George Morley. Scenografia: Ennio Michettoni, Helen Crosby. Effetti speciali: Giuseppe Ferranti. Musiche: Carlo Maria Cordio.

Dichiarazioni tratte da: Omega Raising: Remembering Joe D’Amato (Eugenio Ercolani e Giuliano Emanuele, 2017).

Bon appétit!

ANTROPOPHAGUS