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Mario Bava girò soltanto due film in bianco e nero, La maschera del demonio e La ragazza che sapeva troppo, ma gli furono sufficienti per riaffermare altrettante costanti della sua carriera: la prima, che era un maestro della luce; la seconda, che era uno dei più raffinati alchimisti del cinema italiano.

Cinefili bibliofili
Se nel 1960 La maschera del demonio aveva spalancato le porte del gotico italiano, nel 1963 La ragazza che sapeva troppo ebbe l’onore -e l’onere, in una traversata tutt’altro che priva di “pericoli”- di spianare la strada alla gloriosa stagione gialla. Mario Bava accettò il progetto, che avrebbe voluto intitolare Incubo, in un momento di comprensibile esaurimento: nei tre anni precedenti, aveva partecipato a mezza dozzina di film nella tripla veste di regista, direttore della fotografia e responsabile degli effetti speciali, a cui dobbiamo aggiungere altre collaborazioni, spesso non accreditate, in almeno dodici titoli.
Nell’autunno del 1961, finita l’edizione de Gli invasori, si prese una manciata di mesi di riposo, durante i quali, a parte qualche piccola mano dietro le quinte a progetti di alcuni amici, si immerse in una delle sue grandi passioni: i libri. Lettore onnivoro, furono il mistero, l’orrore e la fantascienza -sua moglie Iole lo prendeva in giro, “così cambiavo le sovraccoperte e nessuno si accorgeva dei racconti di vampiri!”– a seminare fonti d’ispirazione, da Terrore nello spazio (1965) a Cani arrabbiati (1974), passando per la ragazza Nora Davis che, appena sbarcata a Roma per una vacanza da sogno, diventa testimone di un crimine ed entra nel mirino dell’“assassino dell’alfabeto”.
La montagna va da Mario
Il successo de La maschera del demonio aveva portato Bava nei radar internazionali e, quando rifiutò l’offerta dell’American International Pictures per andare a Hollywood, la casa di produzione statunitense stabilì un accordo con Galatea per coprodurre in terre italiane il seguente lavoro: un thriller che cavalcasse l’onda del successo di Psyco (1960). Il film è, in effetti, debitore dell’universo hitchcockiano, in particolare, dell’omaggiato L’uomo che sapeva troppo (1934, 1956), ma filtrato attraverso la lente radicalmente personale e originale del regista, che posò la pietra angolare di una delle più straordinarie stagioni del nostro cinema.
Perché, sebbene possiamo già trovare le radici del “giallo all’italiana” -vale a dire, il giallo nella sua versione più torbida, quella intimamente legata al grande schermo- in titoli come La strada che porta lontano (1954), progetto accademico del futuro pope del genere Ernesto Gastaldi, Un maledetto imbroglio (Pietro Germi, 1959) o La commare secca (Bernardo Bertolucci, 1962), fu la storia di Nora Davis a costruirne l’identikit in maniera consistente e ravvisabile. Identikit, del resto, definitivamente codificato dal proprio regista sanremese pochi mesi dopo in Sei donne per l’assassino (1964).
Un cast di contrasti (e il trauma di John Saxon)
La ragazza che sapeva troppo assemblò un cast fresco e rischioso, guidato da Letícia Román. Figlia d’arte, vale a dire, figlia dell’attrice Giuliana Gianni e del costumista e sceneggiatore Vittorio Nino Novarese, vecchio collaboratore di Bava, realizzò uno stupendo lavoro nel suo primo ruolo da protagonista come investigatrice improvvisata, un po’ naïf, un po’ impicciona, iperimmaginativa e incantevole. Fino a quel momento, però, Letícia aveva soltanto fatto alcune piccole parti -anche se interessanti, a fianco di Elvis Presley e Roger Moore– e l’AIP volle addolcire la scommessa con un altro nome giovane più riconoscibile.
Sotto suggerimento dell’attrice, molto attiva nella comunità italiana di Hollywood, John Saxon ottenne il ruolo da co-protagonista, il dottor Marcello Bassi. Al secolo Carmine Orrico, nato a Brooklyn 27 anni prima, era più che una promessa dal debutto accanto a George Cukor nel 1954 (La ragazza del secolo, È nata una stella). Ma il panorama si stava velocemente trasformando con l’avvento del nuovo decennio e la crisi del mercato statunitense portò molti attori a volgere gli occhi a un’Europa in ebollizione cinematografica. John, scaduto il contratto con Universal, che l’aveva usato come una sorta di risposta a James Dean, non fu un’eccezione.
Così cominciò l’avventura italiana della futura leggenda del western, dell’orrore e del poliziesco. Ossia male, e non per il film, bensì per l’assoluta mancanza di connessione con Bava sul set. Come ricordava divertito (ehm, molti anni dopo), lui non era aggiornato sul lavoro del regista, il quale, a sua volta, storceva il naso davanti a quell’idolo adolescente “raccomandato”. In realtà, John non era il fidanzato di Letícia, come credeva Mario, ma la sua presenza a Roma doveva molto a una peculiare mediazione: “Solo alla fine delle riprese seppi che aveva detto ai produttori che ero innamorato di lei e che, se l’avessero presa, anch’io avrei accettato il ruolo!”.
L’attore si diede da fare con squisita professionalità, ma Bava oscillava sempre tra la gentilezza e l’ostilità nei suoi confronti. “In spiaggia, cominciai a fare qualche esercizio di riscaldamento e lo sentii che brontolava: Eccolo, deve far vedere a tutti che sa il judo!”. Se solo Mario avesse saputo che sul litorale romano stava nascendo I tre dell’Operazione Drago… A completare i ruoli principali, ognuno con un tassello del rompicapo di Nora, il giornalista Andrea Landini, divorato dai rimorsi professionali (Dante Di Paolo) e l’enigmatica Laura Craven Torrani, una Valentina Cortese paragonata a Joan Crawford dal Monthly Film Bulletin.
Alchimie gialle, alchimie nere
La giovane donna straniera, il serial killer con i guanti neri, le telefonate misteriose, i registratori, il feticismo dell’assassino, i traumi… Bava traccia la geografia sentimentale del futuro giallo all’italiana, esclusa la violenza esplicita (poco più di un coltello conficcato in una schiena), bevendo non soltanto dal sopracitato Hitchcock, ma anche dall’estetica gotica -la notte tempestosa, la vecchia magione, il volto fisso del morto, l’immancabile felino nero, i ritratti minacciosi: strepitosa la scenografia di Giorgio Giovannini– e dallo stile visivo del noir classico. Il tutto passato attraverso il suo setaccio di ironia e rovesciamento dei luoghi comuni.
Di conseguenza, prende una Roma in pieno boom turistico, figlio di Vacanze romane (William Wyler, 1953) e specialmente de La dolce vita (Federico Fellini, 1960), e la capovolge, incastrando un incubo dentro quel sogno. A risolvere il mistero sarà la nostra coppia, che di archetipica ne ha ben poco -l’eroina Nora, femme fatale, si fa per dire, sopra ogni riga; l’imbranato Marcello, in bilico tra detective confidente e cicerone spasimante- e che il regista fa salire su un palcoscenico dalla bellezza insolente (definire “ammaliante” la fotografia di Bava sarebbe ingeneroso), fatto di contrasti radicali, di giochi di luci e ombre reali e metaforiche.
Una Roma tra film noir e film soleil, dove amore e morte sono costantemente presenti nell’aria, dove ai giorni assolati a spasso per i fori imperiali o sul belvedere mozzafiato del Pincio seguono le notti di tenebre infinite, pozzanghere sul selciato, facciate e balaustre come bocche fameliche (benvenuto, Coppedè!), porte chiuse, luci lampeggianti, primi piani dal sapore espressionista. Basta un esempio: pochi luoghi più romantici della scalinata di Trinità dei Monti, dove riecheggiano ancora i passi di John Keats e Percy Shelley, vero? Bene, qui diventa il testimone di un assassinio entrato di diritto nell’immaginario filmico italiano.
Bava costruisce un notevole crescendo di tensione, dosando con cura sia i colpi di scena che l’utilizzo di immagini stilizzate e distorte. Il regista combina filtri, lenti grandangolari e inquadrature dall’alto e dal basso per enfatizzare l’atmosfera allucinata di questo viaggio tra sogno e realtà brulicante di piste false: Nora ha visto un assassinio, ha avuto una visione psichica -se mancava qualcosa, La ragazza che sapeva troppo affila lo sviluppo atemporale presente in altre perle del genere, una su tutte, le Sette note in nero (1977) di quell’altro geniaccio chiamato Lucio Fulci– o tutto è un prodotto dell’immaginazione di una lettrice appassionata di romanzi gialli?
Guerra nucleare
Cosa c’entra la guerra nucleare con la nascita del giallo? Molto, perché La ragazza che sapeva troppo uscì in sala il 28 febbraio del 1963, mentre il mondo stava incollato (letteralmente) al piccolo schermo, vivendo in diretta uno dei momenti più critici della Guerra fredda. Non c’era, dunque, tempo per quel thriller del tutto particolare, la cui avventura commerciale finì dopo una settimana e 55 milioni di lire d’incasso, il più basso della carriera di Bava. L’AIP richiese alcuni cambiamenti lungimiranti prima della première americana -la quale, difatti, arrivò con 15 mesi di ritardo-, tra cui una nuova colonna sonora composta da Les Baxter e un nuovo titolo: The Evil Eye.
Ma soprattutto due mosse vincenti: la sostituzione della narrazione maschile in terza persona, a modo di romanzo, per la voce della propria Nora e la recuperazione di alcune scene scartate durante il montaggio originale, assieme ad altre girate ex novo, che diedero completezza alla storia. Nonostante gli sforzi, la nostra ragazza non trovò un’accoglienza calorosa nemmeno oltreoceano. Solo in Francia venne salutato con il giusto entusiasmo questo “giallo brillante”, come definito da Saxon, difficilmente classificabile nel suo intreccio di thriller, noir, horror e commedia romantica, chiamato a comandare una delle più belle rivoluzioni del cinema italiano.
La ragazza che sapeva troppo
Un film di Mario Bava, 1963. Italia, Galatea – Coronet. B/n, 86′.
Soggetto e sceneggiatura: Eliana de Sabata, Ennio de Concini ed Enzo Corbucci, con la collaborazione di Franco Prosperi, Mario Bava e Mino Guerrini. Interpreti: Dante Di Paolo, Gianni Di Benedetto, Gustavo De Nardo, John Saxon, Letícia Román, Milo Quesada, Valentina Cortese. Fotografia: Mario Bava. Montaggio: Mario Serandrei. Scenografia: Giorgio Giovannini. Musiche: Roberto Nicolosi (versione italiana), Les Baxter (versione AIP).
Dichiarazioni tratte da: A Cop in Elm Street. Interview with John Saxon (Fangoria 44 / 1985), Mario Bava. All the Colors of the Dark (Tim Lucas, 2007), Remembering the Girl with John Saxon (The Girl Who Knew Too Much, Anchor Bay DVD, Frank H. Woodward, 2007).