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A Antropophagus (Joe D’Amato, 1980) hanno affibbiato tutti i nomi possibili e (quasi) nessuno bello: film maledetto, malato, infame, snuff movie. Tanti deliri, tanti cartellini rossi che, come spesso succede, finiscono per diventare delle medaglie al valore. Bon appétit!

Antropophagus racconta la storia di un gruppo di amici intrappolati in un’isola a cento miglia dalla costa di Atene, senza vie di comunicazione con l’esterno e, in apparenza, abitata soltanto da una donna vestita di nero che intima loro di andare via; “in apparenza”, appunto, poiché nei paraggi si aggira anche un cannibale con una rara abilità per fiutare la carne fresca. Il film, uscito sotto il sole rovente dell’estate del 1980, fu il primo figlio della Filmirage, casa di produzione fondata quello stesso anno da Joe D’Amato, al secolo Aristide Massaccesi, e sotto la cui egida videro la luce non soltanto tutti i suoi titoli fino al 1994, ma anche tante altre perle, da Lucio Fulci a Claudio Fragasso, da Umberto Lenzi all’esordio dietro la cinepresa di George Eastman.
Era stato proprio Lenzi a sgomberare la strada del cannibal movie quasi un decennio prima (Il paese del sesso selvaggio, 1972) e in questo filone, ancora molto trafficato -basti pensare che una delle sue colonne portanti, il Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, era uscito in sala a febbraio-, Antropophagus è stato e continua a essere incastrato in maniera abbastanza grossolana: in effetti, c’è l’abitante di un posto paradisiaco che mangia carne umana, ma i punti di contatto con la mappa del mondo cannibale si esauriscono qui. In primo luogo, perché questa storia non si svolge in nessuno degli esotici teatri, Amazzonia in primis, tipici del genere, posti talmente lontani da erigere una barriera di protezione attorno alla mente di chi guarda.
D’Amato invece toglie questo paravento, come avevano già fatto nomi del calibro di Riccardo Freda nel primo film dell’orrore italiano, I vampiri (1957), dove il male scambia un polveroso castello sperduto con un appartamento a Parigi, o Roman Polanski in Rosemary’s Baby (1968), mirabile trasposizione del romanzo omonimo di Ira Levin, dove bussa alla porta sotto forma di incantevole coppia di anziani newyorchesi. E lo fa senza sconti, piazzando il terrore in un paradiso a portata di mano dello spettatore, ancor di più, ambito da esso, allargando la breccia aperta da Narciso Ibáñez Serrador nel suo capolavoro Ma come si fa ad uccidere un bambino? / ¿Quién puede matar a un niño? (1976), ambientato in un paesino insulare spagnolo.
Il palcoscenico di Antropophagus è la Grecia, dove vennero girati alcuni esterni, anche se la maggioranza delle riprese si svolse sul litorale laziale (Sperlonga, Nepi, Sutri, Ponza): da lì, il regista dimostra l’importanza del mestiere per superare qualsiasi limitazione. Perché al film non mancano alcuni dei nei endemici degli horror del periodo, in particolare, il budget ridotto e la recitazione ora stramba, ora pomposa, ora spaesata del cast di vittime, eccezione fatta per un volto di culto, Tisa Farrow, fresca di ciak con Fulci (Zombi 2, 1979) e Antonio Margheriti (L’ultimo cacciatore, 1980). Ma D’Amato salta il fosso con garbo e compie un prodigio di mood cinematografico che fa propria la lezione tenuta dal nosferatu di un tale Murnau cent’anni fa.
In questa maniera, Antropophagus mette lo spettatore in un permanente stato di inquietudine vischiosa, a volte più sottile, altre volte irrespirabile. Con una fotografia sgranata, sporca, e una disturbante colonna sonora dal taglio elettronico come compagne di viaggio, ci addentriamo in un microcosmo dove il dantesco “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” riecheggia sia nei luoghi canonici dell’orrore -ville abbandonate, con tanto di folgorante omaggio a Suspiria (Dario Argento, 1977), cimiteri, pozzi- che nelle stradine bianche, nelle acque cristalline, tra la rigogliosa vegetazione. Il regista romano copre il paradiso con un lenzuolo funebre invisibile che non cede da nessuna parte: il cannibale ha impregnato di desolazione fisica e morale ogni pietra del suo regno.
Un padrone di casa che, però, non vediamo immediatamente. La sua presenza si palesa nella sequenza iniziale -una straordinaria soggettiva mentre esce dal mare: la visione cristallizzata dal sale, la respirazione agitata, gocce di sangue sul bagnasciuga-, ma subito dopo l’attenzione si sposta verso il gruppo, verso le azioni e decisioni che vanno intrappolando ognuno di loro nelle sabbie mobili dell’orrore. Un crescendo di tensione artigianale, nel quale non ci sono né sequenze particolarmente sanguinose né scene di violenza sugli animali, com’era terribile consuetudine nei cannibal movie; anzi, ce n’è uno: un povero coniglietto “comprato (già morto, a quanto pare bisogna ancora sottolinearlo) nella macelleria sotto casa”, come ricordava D’Amato.
E poi, dopo quasi un’ora, la deflagrazione, ovvero la prima (geniale) apparizione a viso scoperto del cannibale, che da allora padroneggia la scena, sebbene nemmeno durante quegli ultimi 30 minuti lo vediamo costantemente e non di rado compaia in penombra. Eastman / Luigi Montefiori, attore e sceneggiatore feticcio di Massaccesi, sfonda la porta della leggenda incarnando un male antico, atavico, forse inestirpabile: una massa cieca -l’impressionante fisico del genovese raggiunge livelli demoniaci grazie alla combinazione di diverse angolazioni di ripresa-, uno sguardo allucinato, una camminata con la stessa cadenza della mannaia della morte che, tra le gallerie di loculi scavati nel tufo, con l’alito fumante e schivando topi e sudari, riesce a raggelarci il sangue.
Il tutto in un film, nonostante l’aura maledetta, con poche scene violente e soltanto due gore, tra le più brutali mai viste su pellicola (specie in quel momento), dalla durata, però, brevissima: appena un minuto sui 91 totali: la prima, nelle catacombe; la seconda, il finale folle. Ma la chiave di lettura più terribile e avvincente di Antropophagus probabilmente sia il fatto che qui non si insinua il soprannaturale. Il cannibale non appartiene a una tribù remota, non è posseduto da nessun demone. Il cannibale è Klaus Wortmann, un uomo perfettamente civilizzato fino a un momento di rottura mentale, e la sua storia viene raccontata in un flashback che pone una domanda alla bestia che si cela in ogni essere umano: cosa avremmo fatto noi al suo posto?
Antropophagus
Un film di Joe D’Amato, 1980. Italia, P.C.M International – Filmirage. 91′, colore.
Soggetto: Aristide Massaccesi, Luigi Montefiori. Sceneggiatura: Luigi Montefiori. Interpreti: Bob Larson, George Eastman, Margaret Donnelly (Margaret Mazzantini), Mark Bodin, Mark Logan, Rubina Rey, Saverio Vallone, Simone Baker, Tisa Farrow, Vanessa Steiger (Serena Grandi), Zora Kerova. Fotografia: Enrico Biribicchi. Montaggio: Ornella Micheli. Scenografia: Ennio Michettoni. Musiche: Marcello Giombini.
ROSSO SANGUE, (non) seguito di ANTROPOPHAGUS e miglior slasher italiano: