Alcuni mi ritengono completamente pazzo perché tento sempre di essere un terrorista del genere: sto dentro, ma ogni tanto metto la bomba che tenta di farlo deflagrare. Lucio Fulci.

Fausta Avelli in Sette note in nero. Lucio Fulci, 1977.

Un eclettismo e una personalità artistica che lo resero capace di girare con la stessa verve sia alcuni dei più bei lungometraggi di Franco e Ciccio che due tra i più sanguinosi western all’italiana -gli straordinari Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro (1966) e I quattro dell’Apocalisse (1975)-, nonché di manifestare il suo dominio onnipotente sia nel terrore che, ancor prima, nel giallo: ne è esempio fulgente Sette note in nero (1977), non soltanto l’ultimo capolavoro di questa gloriosa stagione cinematografica, ma anche uno dei capisaldi dell’olimpo “fulciano”, probabilmente secondo solo a Non si sevizia un paperino (1972).

Entrambi sono uniti in maniera simbolica da una scena che chiude il primo e apre il secondo: un corpo in caduta libera da uno strapiombo, due momenti granguignoleschi in due opere pressoché perfette. In Sette note in nero, esso appartiene a una donna che si butta dalle bianche scogliere di Dover, suicidio che sua figlia Virginia “vede” mentre si trova in gita scolastica a Firenze. Dopo questo preludio, la narrazione torna al presente: Virginia (Jennifer O’Neill), fresca di nozze con il nobile toscano Francesco Ducci (Gianni Garko), viene assalita da un’altra visione che suggerisce un’anziana signora uccisa e murata in una stanza da un uomo zoppo.

Durante i lavori di ristrutturazione della dimora familiare, Virginia crede di riconoscere il luogo del delitto e sfonda il muro della stanza a picconate, ma lo scheletro che, in effetti, viene ritrovato appartiene a una ragazza sparita cinque anni prima. Fulci parte, dunque, dall’impianto medianico –topos, del resto, presente nel genere già dal pionieristico La ragazza che sapeva troppo (Mario Bava, 1963)- ed estetico di Profondo rosso (Dario Argento, 1975), per poi contestarlo e sorpassarlo con un’opera assolutamente personale, dotata di una sceneggiatura di ferro, un’eccellente direzione di attori e un’esplicita rinuncia, esclusi quei due tocchi splatter, al sangue.

Le vicissitudini produttive di Sette note in nero incrociarono per la prima volta le strade di Fulci e di uno dei pope della nostra scrittura cinematografica, Dardano Sachetti, futura anima della “trilogia della morte”. Il progetto nacque come un adattamento di Terapia mortale, ma Sachetti, Roberto Gianviti, storica mano destra di Fulci, e il proprio regista finirono per trasformare completamente il romanzo di Vieri Razzini, forgiando una nuova storia. Non furono pochi i contrasti creativi del trio, ma diedero come risultato un giallo che, correndo lungo i binari classici del genere, esplora la dimensione paranormale con una serietà e una coerenza narrativa impeccabili.

Il film riprende, senza l’annesso scandalo, l’atmosfera asfissiante di Non si sevizia un paperino, un turbinio di segreti, sospetti e ambiguità dove tutti sembrano -e possono essere- innocenti e colpevoli. Al centro, una scommessa rischiosa, ma vincente, ovvero O’Neill, fresca di riprese con Luchino Visconti (L’innocente, 1976), in un ruolo da protagonista principale, circondata da un cast meravigliosamente raffinato: oltre a Garko, Evelyn Stewart, Marc Porel, Gabriele Ferzetti. Vite interdipendenti, scosse fino alle fondamenta dall’avvio delle indagini ufficiali e ufficiose per portare alla luce la verità dietro la ragazza morta e l’anziana che continua a tormentare Virginia.

Le visioni, frammentate e sovrapposte, provocano incomprensioni temporali tra quello che è accaduto e quello che dovrà accadere (antesignane, ad esempio, de La zona morta di Stephen King, messa su pellicola da David Cronenberg nel 1982), portando a costanti capovolgimenti delle certezze attraverso una costruzione esemplare della tensione filmica. Ultima grande fermata prima dello sbarco nell’orrore puro, Fulci limita al massimo gli eccessi estetici in Sette note in nero, anche se non mancano i soliti movimenti fulminei della macchina da presa, con una ricerca spasmodica di primi e primissimi piani e dei dettagli delle precognizioni di Virginia.

Lo svelamento dei significati del carillon, la sigaretta, il dipinto di Vermeer, la rivista, il taxi giallo o lo specchio viene fatto con un’eccezionale tempistica dal sapore hitchcockiano, influenza tutt’altro che estranea al trasteverino -basti ricordare Una sull’altra (1969) o persino Una lucertola con la pelle di donna (1971)-, che qui guarda in particolar modo Il delitto perfetto (1954). Fulci riesce a trasmettere la sensazione di claustrofobia e isolamento sperimentato dalla protagonista grazie al montaggio filo-espressionista curato da Ornella Micheli, alla saggia miscela delle diverse angolazioni di ripresa e, soprattutto, a un doppio gioco di equilibri.

Il primo, tra luci e ombre: la fotografia di Sergio Salvati sublima non soltanto gli interni, segnati da un potente uso simbolico dei colori, compreso l’ormai leggendario “rosso pompeiano”, ma anche degli esterni di una Siena accattivante e dedalea, fuori dai luoghi comuni. Il secondo, tra suono e silenzio, mediante la combinazione di scene brulicanti di dialoghi e sequenze di estrema tensione cullate soltanto -si fa per dire- dalla colonna sonora di Bixio, Frizzi e Tempera, tra le più inquietanti del genere, coronata da quelle sette note del carillon che, sulla scia di Lullaby, la ninna nanna dei Goblin in Profondo rosso, diventeranno la chiave di volta del film.

Il tutto per dissolvere i confini tra la dimensione onirica e la dimensione materiale di una Virginia erede della tradizione del gotico femminile: una donna consapevole di ciò che vede e sente in un microcosmo senza appigli certi che la vuole far sprofondare in uno stato di paranoia e smarrimento. Sette note in nero mette in moto un crescendo di tensione che sfocia in un’ultima mezz’ora magistrale, nella quale tutte le tessere cadono nel posto giusto, fino al decisivo omaggio a Edgar Allan Poe. E la sensazione è la stessa: quella di essere intrappolati in un ingranaggio tecnico e narrativo che, sotto il manto della perfezione matematica, nasconde un mondo in fiamme.


Sette note in nero

Un film di Lucio Fulci, 1977. Italia, Rizzoli Film – Cinecompany. Colore, 93′.

Soggetto e sceneggiatura: Dardano Sacchetti, Lucio Fulci, Roberto Gianviti. Interpreti: Bruno Corazzari, Elizabeth Turner, Evelyn Stewart (Ida Galli), Fabrizio Jovine, Fausta Avelli, Franco Angrisano, Gabriele Ferzetti, Gianni Garko, Jennifer O’Neill, Jenny Tamburi, Loredana Savelli, Luigi Diberti, Marc Porel, Riccardo Parisio Perrotti, Salvatore Puntillo, Vito Passeri. Fotografia: Sergio Salvati. Montaggio: Ornella Micheli. Scenografia: Luciano Spadoni. Musiche: Franco Bixio, Fabio Frizzi, Vince Tempera.

Dichiarazione di Lucio Fulci tratta da: Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci (2004).