Milano odia: la polizia non può sparare. Umberto Lenzi, 1974.

La critica specializzata -quella con accanto il simbolo del “marchio registrato”- ha spesso negato il pane e il sale a Umberto Lenzi, ma la cinepresa del regista toscano spicca tra quelle più originali e versatili del nostro cinema, spaziando dal giallo al cannibal movie, filone da lui inaugurato, passando per il poliziesco all’italiana, dove dimostrò con radicale efficacia il suo talento tecnico e artistico. Dopo un interessante primo approccio al genere in Milano rovente (1973), affiancato da Philippe Leroy e Antonio Sabàto, nel 1974 arrivò quello che probabilmente sia il capolavoro della sua carriera: Milano odia: la polizia non può sparare.

Una storia con una messa in scena perfetta, dall’incredibile potenza visiva e girata in modo magistrale, nella quale piombiamo in medias res. Mentre passano i titoli di testa, a cavallo delle note di Ennio Morricone, saliamo su una macchina che sfreccia per la città: alla guida, Giulio Sacchi (Tomas Milian), delinquente di piccola tacca che, incapace di tenere i nervi saldi, uccide un vigile e manda a monte una rapina; malmenato e umiliato dagli ormai ex colleghi, si mette in testa di dare il colpo definitivo, un sequestro di mezzo miliardo di lire, ma ogni mossa diviene un bagno di sangue e si ritrova presto braccato dal commissario Walter Grandi (Henry Silva).

Le pause non sono un’opzione in casa Lenzi e Milano odia: la polizia non può sparare non è un’eccezione. La penna di Ernesto Gastaldi, che aveva appena accompagnato l’esordio nel poliziesco dell’amico Sergio Martino (Milano trema: la polizia vuole giustizia, 1973), firma una sceneggiatura brillantemente strutturata, dall’alta compattezza narrativa: lineare, diretta, tesissima, tanto da indurci a “sentire” molta più azione di quanta in effetti ce ne sia perché, anche se di certo non mancano delle superbe sequenze di azione pura (compreso un frammento di inseguimento riciclato da Milano trema), il film si sbilancia verso il noir, come era, del resto, intenzione del regista.

In una città gelida (eccezionale la fotografia di Federico Zanni), Lenzi e Gastaldi sparpagliano una collezione di tipi umani tratti dal palcoscenico meneghino dei primi anni ’70. Nei bassifondi, il boss biscazziere Ugo Maione (Luciano Catenacci), il trafficante d’armi “Papà” (Pippo Starnazza) e i complici di Sacchi: Vittorio (Gino Santercole in un inedito ruolo drammatico) e Carmine, uno stupendo Ray Lovelock, “faccia d’angelo” imprescindibile del genere, già presente nell’apripista Banditi a Milano (Carlo Lizzani, 1968) e qui piccolo contrabbandiere che tenterà di fungere da contrappeso morale alla brutalità del capo dell’improvvisata banda.

Assieme a loro, volenti o nolenti, Ione (Anita Strindberg), fiamma malsana di Giulio, nonché impiegata del commendator Porrino (Guido Alberti), padre della sequestrata Marilù (Laura Belli), e il giudice Rossi (Tom Felleghy). Tutti, cornice d’oro dello scontro tra il buono e il cattivo, brutti non pervenuti: il primo, quasi eccezionalmente, Silva, che impersonò Grandi fresco della trilogia del milieue, con il doppiaggio impeccabile di Nando Gazzolo, si cucì addosso un commissario di ghiaccio bollente, consapevole che bisognerà sporcarsi le mani, troppo legate dal sistema, per fermare la follia omicida di Sacchi.

Il secondo, appunto, Sacchi, l’antagonista-protagonista attorno al quale gravita tutto il film. Diretto da Mauro BologniniNanni Loy, da Valerio Zurlini, Sergio Sollima o il sopracitato Lizzani, era dal 1959 che Milian seminava pietre preziose nel cinema italiano, ma Milano odia: la polizia non può sparare fu una rivoluzione, anzi, quasi un miracolo, poiché l’attore cubano arrivò al progetto nei tempi supplementari: ripetendo la coppia de Il boss (Fernando Di Leo, 1973), Richard Conte avrebbe dovuto calarsi nei panni del commissario e Silva, in quelli del criminale di Sesto San Giovanni, ma Milian riuscì a convincere Lenzi a dargli la parte.

Figlio del proletariato con un efferato rancore nei confronti della società, Sacci si trasforma in un sadico impredicibile, capace di uccidere per mezzo miliardo di lire o per qualche spicciolo; vigliacco consapevole, è un pazzoide paranoico, ironico e cinico, dalla lingua e dal grilletto leggeri, radicalmente antiborghese in apparenza, ma un altro schiavo del sistema in fondo, perennemente drogato e affamato di soldi per diventare uno di quelli che disprezza. Per la prima volta, Ferruccio Amendola, con una sottile inflessione milanese, gli presta la voce e, come nel caso di Lenzi, nessuno dei due sapeva allora quanto la vita li avrebbe visti legati.

L’allucinante prova di recitazione di Milian ricorda il miglior Al Pacino: molti discorsi di Sacchi preannunciano le filippiche di Tony Montana in Scarface (Brian De Palma, 1984) e, per alcuni versi, si erge persino ad antesignano di Sonny Wortziz in Quel pomeriggio di un giorno da cani / Dog Day Afternoon (Sidney Lumet, 1975). L’attore, con un elevato tasso alcolico nel sangue durante le riprese per ottenere un’immedesimazione ideale, porta al limite un personaggio dalle mille sfaccettature, affascinante e terrificante al tempo stesso, sia per chi lo circonda che per lo spettatore, dando come risultato uno dei cattivi più straordinari del genere.

Almost Human (“Quasi umano”), The Death Dealer (“Lo spacciatore di morte”) o The Executioner (“L’esecutore”) furono alcuni dei titoli scelti per i mercati internazionali, spesso con trailer montati ad arte per farlo sembrare un thriller confinante con l’orrore: ne sa qualcosa la scena della roulette umana. Un’impostazione tesa a snaturare un film che, sebbene dia un’occhiata all’intelaiatura della pietra miliare poliziesca Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, Don Siegel, 1971), è un’opera profondamente personale, figlia prediletta dell’Italia di piombo, del Paese lacerato dalla violenza di piazza, gli scontri di classe e il terrorismo.

Giulio, Accattone senza innocenza né venature poetiche, Carmine e Vittorio sono I ragazzi del massacro di Giorgio Scerbanenco qualche anno dopo. Storia di sconfitte personali e sociali, prezzo del progresso e legalità in stato avanzato di putrefazione, Milano odia: la polizia non può sparare mette in luce filo-neorealista le trasformazioni socioeconomiche del periodo, simbolizzate con lucidità etica ed estetica in uno dei finali più grandiosi e amari del genere, colofone geniale di uno dei migliori noir / polizieschi del cinema italiano, legittimamente vicino al trono sul quale siede un tale Di Leo. “Si calmeranno le acque: oggi un morticino non fa più notizia”.


Milano odia: la polizia non può sparare

Un film di Umberto Lenzi, 1974. Italia, Dania Film. Colore, 99′.

Soggetto e sceneggiatura: Ernesto Gastaldi. Interpreti: Anita Strindberg, Gino Santercole, Giuseppe Castellano, Guido Alberti, Henry Silva, Laura Belli, Lorenzo Piani, Luciano Catenacci, Mariano Laurenti, Mario Piave, Muzio Joris, Pippo Starnazza, Ray Lovelock, Rosita Torosh, Tom Felleghy, Tomas Milian. Fotografia: Federico Zanni. Montaggio: Eugenio Alabiso. Musiche: Ennio Morricone.