L’assalto a un treno a poche miglie dal confino messicano frutta ai banditi 300000 dollari. Il colpo, brutale e geniale a parti uguali, porta una firma inconfondibile: Bill Sant’Antonio (Frank Wolff). Per dargli caccia, la compagnia di assicurazioni assume il pistolero Hutch Bessy (Bud Spencer), che vuole farsi affiancare nelle ricerche da un vecchio collega, Cat Stevens (Terence Hill). Ma sorge un problema: Cat ha già ucciso Bill in un duello precedente. O almeno così crede.
Frank Wolff (e una capretta) in Dio perdona… io no! Giuseppe Colizzi, 1967.

Nel 1754, ispirato dalla favola persiana I tre principi di Serendip, Horace Walpole coniò il termine serendipity, “serendipità”, per definire quelle scoperte straordinarie realizzate in maniera fortuita, spesso mentre si sta cercando altro. Ed è sicuramente questo il concetto che meglio definisce le vicende produttive di Dio perdona… io no! (1967). Come Fëdor Dostoevskij scrisse Il giocatore (1866) per pagare una sfilza di debiti di gioco, così Giuseppe Colizzi diresse il film per saldare un debito con Cinecittà risalente al suo periodo da produttore.

Le scarse prestazioni al botteghino de Le belle famiglie (Ugo Gregoretti, 1964) e Questa volta parliamo di uomini (Lina Wertmüller, 1965) lo sedettero per la prima volta dietro la macchina da presa e sembrava scritto che l’esordio dovesse avvenire nel western. Scrittore di fine talento -aveva pubblicato per la Mondadori due romanzi polizieschi: La notte ha un’altra voce (1958) e Orrendamente legittima (1960)-, nella testa di Colizzi frullava da tempo l’idea di girare un adattamento de Il cane, il gallo e la volpe (Esopo, VI secolo a.C.) ambientato nel vecchio West.

Per di più, era fresco di un’esperienza cinematografica illuminante accanto a Sergio Leone -un’estate spagnola lavorando come assistente al montaggio e alle riprese de Il buono, il brutto, il cattivo (1966)- e, in campi meno poetici, ma fondamentali, il western era l’unico genere in grado di garantire un ottimo rapporto costi-benefici. Così, pochi mesi dopo la lezione leoni(a)na, Colizzi tornò ad Almería, culla iberica del western all’italiana, per dare il via alle riprese di Dio perdona… io no! E il risultato fu tutt’altro che un film di circostanza.

Una storia di strane coppie unite da vendette lungamente attese e peccati da espiare in “trielli” sotto il sole cocente del deserto. La “trilogia del dollaro” esercitò un’influenza radicale in questa stupenda opera prima che, rientrando a pieno nelle coordinate del genere, seppe rimanere profondamente personale, confezionata con estrema cura sia dal punto di vista della scrittura, strutturata attraverso l’uso di analessi e con un dosaggio sapiente del ritmo narrativo, che da quello estetico, brulicante di inquadrature e primi piani alla Leone.

La fotografia di Alfio Contini -radiosa tanto nelle sconfinate panoramiche quanto negli interni- e una colonna sonora dal sapore epico, con richiami a Carl Orff, completano la preziosa intelaiatura di un racconto che capovolge gli schemi classici del favolista greco: non sono gli animali ad agire come umani, bensì gli umani ad agire come animali. E, di nuovo, la serendipità fu il mazziere nella partita per scegliere il cane e il (non più gallo, ma) gatto perché Bud e Terence, ancora Carlo Pedersoli e Mario Girotti, erano due volti pressoché sconosciuti per il pubblico.

Silvana Mangini, assistente alla regia e moglie di Colizzi, ebbe l’intuizione di contattare Bud, da otto anni lontano dai set, dopo averlo visto in Siluri umani (Antonio Leonviola, 1954). Per quanto riguarda Terence, il veneziano non era nemmeno la prima opzione per il ruolo, ma una caduta per le scale, con tanto di gamba rotta, di Peter Martell, dopo una clamorosa litigata con la fidanzata, gli spianò la strada e ricevette la chiamata dal produttore Manolo Bolognini mentre stava partecipando al musicarello Little Rita nel West (Ferdinando Baldi, 1967).

Gli attori non si erano mai visti di persona: nel 1959, entrambi avevano partecipato all’Annibale di Carlo Ludovico Bragaglia -ultimo ruolo di Bud fino a quel momento-, ma non avevano condiviso scene né si erano incrociati sul set. Tuttavia, tra di loro si creò una deliziosa complicità caratteriale e fisica sin dal primo ciak di Colizzi: c’era, come ricordava il regista, “una sorta di elemento mitologico attorno a loro, un’aura che è inspiegabile” e la coppia, già con i celeberrimi nomi d’arte, si rivelò idonea per le rispettive parti.

Il primo, segugio fedele e caparbio, che non abbandona la traccia -indimenticabile la sua prima apparizione, di spalle, avvolto in un cappotto riccio che copre l’inquadratura quasi per intero; il secondo, felino agile, veloce, astuto, dallo sguardo ipnotico, che ricalca le orme di Clint Eastwood, in qualche occasione con troppa enfasi. E, come non poteva essere altrimenti, Cat e Hutch diventarono i protagonisti di una trilogia sulle mille sfaccettature dell’amicizia e la vendetta: nel 1968 arrivarono I quattro dell’Ave Maria; nel 1969, La collina degli stivali.

Non possiamo, dunque, commettere l’errore di analizzare i primi titoli di Spencer e Hill col senno di poi. La canonizzazione della coppia avvenne con Lo chiamavano Trinità (1970), grazie alla sterzata di farsa e tenerezza data da Enzo Barboni. Ben al contrario, la trilogia di Colizzi, soprattutto Dio perdona… io no!, si inabissa nel mare dell’anima umana, è serio, grave, con gocce di giallo e thriller, e violento: dalla straordinaria sequenza iniziale della strage sul treno al feroce “triello” finale, passando per le torture architettate da Sant’Antonio.

Perché, mentre il cane Spencer e il gatto Hill cominciano a ingranare, il centro di gravità di questa storia è la volpe di Frank Wolff. Da Salvatore Giuliano a America America (Elia Kazan, 1963), l’attore californiano aveva un bagaglio troppo ricco per non dare una lezione di recitazione e piazzare Bill tra i cattivi più sublimi del genere, sulla scia del glorioso (l’aggettivo è ingeneroso) Tuco Ramírez. Ma, se Eli Wallach gioca con un brutto cattivo-non-cattivo incantevole, nel quale l’umanità avanza a morsi, Wolff deve fare i conti con un’incarnazione del male.

Con ricci e barba tinti di arancione per assomigliare alla pelliccia dell’animale (l’anno seguente ripeterà colore in C’era una volta il West, ma sarà per motivi irlandesi), sa farsi ora soave, furbo e tentatore, ora cinico e violento, sadico fino al parossismo, erede del suo Joshua Tracy ne Il tempo degli avvoltoi (Nando Cicero, 1967). Una forza tellurica che, con modi luciferini, sublima i monologhi usciti dalla penna di Colizzi. Ancora una volta, com’era successo a Gianni Garko con il primo Sartana, il cattivo di turno si mangia il film con un’interpretazione memorabile.

Fu così che con Dio perdona… io no! esplose il botteghino: più di due miliardi di lire, quarto maggiore incasso della stagione 1967-68, il primo tra i titoli italiani. Un gioiello tutto da rivalutare, sia come opera indipendente sia come capostipite di una trilogia che non soltanto fece di Colizzi uno dei registi più interessanti dell’universo del western all’italiana, ma segnò anche il battesimo di fuoco di una coppia chiamata a incastrarsi per sempre nel nostro immaginario culturale e sentimentale. E proprio in questo consiste il cinema.


Dio perdona… io no!

Un film di Giuseppe Colizzi, 1967. Italia – Spagna, Crono Cinematografica – Productores Exhibidores Film. Colore, 111′.

Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Colizzi. Interpreti: Antonietta Fiorito, Bruno Arie, Bud Spencer, Franco Gula, Frank Braña, Frank Wolff, Gina Rovere, Joaquín Blanco, José Canalejas, José Manuel Martín, Paco Sanz, Remo Capitani, Terence Hill. Fotografia: Alfio Contini. Montaggio: Sergio Montanari. Scenografia: Gastone Carsetti, Luis Vasquez. Musiche: Ángel Oliver Pina, dirette da Bruno Nicolai.

Dichiarazioni tratte da: Francesco Carrà, Terence Hill e Bud Spencer: la vera storia di Giuseppe Colizzi, l’uomo che inventò la coppia (Bloodbuster, 2010).

Quando Bill Sant’Antonio fu Gaspare Pisciotta:

SALVATORE GIULIANO, UN MANUALE DI STORIA