Mi è rimasto tutto assolutamente a fuoco, molto più a fuoco di film che ho fatto più recentemente. C’era, da una parte, l’incoscienza; dall’altra, la responsabilità, il vero banco di prova per un lungometraggio. E credo che quell’obiettivo sia stato raggiunto. Mi ricordo inquadratura per inquadratura, fotogramma per fotogramma, goccia di sudore su goccia di sudore. Deliria è un lavoro che vive dentro di me.
— Michele Soavi.
Giovanni Lombardo Radice in Deliria. Michele Soavi, 1987.

Ditta Massaccesi – Montefiori

“Le mando subito il mio assistente, si chiama Daniele Soave. Si fidi, è un ragazzo in gamba”. Con questa battuta di Opera (1987), Dario Argento strizzava l’occhio a Michele Soavi, il giovane poliziotto “Soave” e, soprattutto, il suo assistente alla regia dai tempi di Tenebre (1982). “In gamba”, però, gli andava molto stretto: cresciuto sotto l’ala di Joe D’Amato, Michele, alle soglie dei 30 anni, stava nel contempo lavorando al suo portentoso esordio registico, Deliria. Un’avventura che cominciò una piovosa mattina. “Ero rimasto a dormire quando mi chiamò Aristide: Ho pensato di farti dirigere un film. E io: Ma è una pazzia, sei un incosciente! Ma chi te lo fa fare? Perché devi rischiare su di me?”. Perché dall’inizio aveva fiutato un talento sconfinato.

Il primo lungometraggio di Soavi nacque, dunque, “assolutamente dalla sua stima”; prodotto con la leggendaria Filmirage, doveva essere “a basso costo e fattibile”. A fare centro fu un altro puntale dell’universo D’Amato, George Eastman, che scrisse la storia pensando al modo in cui il regista lavorava con budget ridotti all’osso e al proprio Michele, il quale se ne innamorò subito “perché Luigi è molto bravo: scrive delle storie di genere, ma con un’unghiata in più”. In Deliria, mentre un gruppo teatrale sta preparando un musical sulla vita di un assassino, l’attore Irving Wallace (Clain Parker) evade dal manicomio dov’era stato rinchiuso dopo aver smembrato alcuni colleghi e uccide a picconate Betty (Ulrike Schwerk), costumista della compagnia.

The show must go on? Con la data del debutto pendente sulla testa come una spada di Damocle, il regista Peter Collins (David Brandon) coglie l’occasione per risollevare le sorti del suo traballante spettacolo –“Ho bisogno di soldi e di un successo. E anche voi”– e quella stessa notte si chiude nel teatro assieme ad alcuni degli artisti -Alicia (Barbara Cupisti), Brett (Giovanni Lombardo Radice), Laurel (Mary Sellers), Danny (Robert Gligorov), Sybil (Jo Anne Smith)- per riprendere le prove, adeguando cinicamente il copione agli eventi: “Brett, il tuo personaggio non sarà più un gufo anonimo. Adesso ha un nome: Irving Wallace”. Ma il vero Wallace si è già nascosto dietro le quinte, pronto a capovolgere la loro scala di priorità.

Maestri e allievi

Deliria parte da un impianto simile a Rosso sangue (1981), in cui Soavi aveva partecipato nella doppia veste di assistente di D’Amato e attore: prende alcuni dei topoi dello slasher -plot semplice e lineare, spazio fisico e temporale ridotto, final girl sensibile e caparbia, poliziotti inetti (un breve, ma micidiale ruolo del regista, agente più interessato alla sua ipotetica somiglianza con James Dean che allo psicopatico a piede libero)- e li rivitalizza con un’impronta tecnica ed estetica alle antipodi del modello americano. Persino il concetto di “assassino misterioso” sparisce: sappiamo chi (e come) è Wallace e che approfitterà della visita di Alicia al manicomio per scappare. Ironie della sorte, unico centro sanitario dove possono dare un’occhiata alla sua caviglia.

Ben lontano dai fasti di Opera, cinque mesi di riprese tra Lugano, Roma e il Teatro Regio di Parma, Deliria venne girato in cinque settimane in degli studi De Laurentiis abbandonati alle porte di Roma “che ci avevano affittato per poche lire e che cadevano a pezzi”. Lombardo Radice, collaboratore anche alla sceneggiatura, ricordava che “il luogo era terribile, pieno di polvere, faceva caldo, però questo ha anche aiutato il senso di claustrofobia. Eravamo tutti un po’ isterici, il che giovava all’atmosfera del film”. Ecco la parola d’ordine: questa è una lezione di mood cinematografico, nella quale Soavi dimostra di aver imparato gli insegnamenti di Argento, di D’Amato e di altri set privilegiati come la “trilogia della morte” di Lucio Fulci o Dèmoni (Lamberto Bava, 1985).

Maestri vicini e lontani -si sente anche l’eco de Il fantasma del palcoscenico (Brian De Palma, 1974)- vagliati dal suo talento visionario per creare una delle atmosfere più accattivanti dell’orrore italiano (e non), sublimando la claustrofobia del teatro come luogo antico di vita e morte, presente sul grande schermo da Il fantasma dell’Opera (Rupert Julian, 1925). Difatti, Lombardo Radice sottolineava come, a differenza di altri professionisti attenti alle esigenze commerciali, Soavi avesse “un’autentica passione per quel genere: era un cultore di Edgar Allan Poe, di Lovecraft… E questo dava una grande carica”. Molto simile la riflessione di Brandon, con cui aveva lavorato in Caligola. La storia mai raccontata (D’Amato, 1982): “La passione del regista fa la differenza”.

“Tutto quello che vediamo…

… o sembriamo non è un sogno dentro un sogno?”. Soavi si culla nelle righe del suo Poe e organizza Deliria come un selvaggio viaggio onirico. Atrio, platea, palcoscenico, corridoi, camerini, ripostigli: ogni parte del teatro diventa un filo della ragnatela nella quale i protagonisti rimangono, e noi assieme a loro, lentamente, inesorabilmente intrappolati, sotto la sorveglianza dell’angelo sterminatore Wallace. Qui, però, non manca la volontà di uscire, come nella favola surrealista di Luis Buñuel: manca l’unica chiave che apre la porta del teatro. Sulle note distorte di Simon Boswell, che aveva esordito accanto ad Argento in Phenomena (1985), si svolge la corsa per la vita di una compagnia già carne da macello artistico, adesso carne da macello e basta.

Figlio di un apprendista (si fa per dire) cresciuto nelle botteghe dei migliori orefici del sangue nostrani, non ci può stupire che Deliria riservi ai membri di questo “gruppo di famiglia in un interno” delle morti personalizzate. L’attrezzeria del teatro risveglia l’immaginazione dell’assassino, che mette in moto una giostra di orrore sulla quale salgono omaggi a Antropophagus, Psyco, Halloween. La notte delle streghe, Non aprite quella porta e persino un incrocio tra Alien e il cervello trapanato di Lombardo Radice in Paura nella città dei morti viventi. Una curiosità: Fulci aveva inizialmente pensato a Soavi per il personaggio di Bob, poi divenuto uno dei ruoli emblematici (e c’è l’imbarazzo della scelta) della leggenda romana dell’orrore.

Un’esperienza eccessiva, grandguignolesca, espressionista: i primi piani e i manierismi di Lombardo Radice e Brandon -non esitate a cercare la versione originale, girata in inglese, per ascoltare le voci di entrambi gli attori- potrebbero reggere da soli il film. Tutto, però, al punto giusto, con i colpi di scena mirabilmente dosati e una tra le più seducenti mise en scène dell’orrore, di nuovo, italiano e non. Basti pensare al tableau vivant che l’assassino (almeno lui è vivo) crea con alcuni dei cadaveri ricomposti, mentre una nevicata di piume copre il palcoscenico. Poesia cinematografica oscura, rimasta incastonata nell’immaginario del genere, con buona pace di Lombardo Radice, che aveva “un ricordo terribile di quella scena, il palco era pieno di viscere animali…”.

Fiat lux

Deliria esplora il sottilissimo confine tra la vita e la morte, giocando perversamente con realtà e finzione scenica. Nel suo spezzare i luoghi comuni, maschera l’assassino a posteriori e, per di più, con il costume da barbagianni (un richiamo alla criminale “Corte dei gufi” di Gotham City?) destinato al protagonista del musical: scelta bizzarra, geniale e di certo non casuale in un film che rovista il ventre delle paure ataviche dell’essere umano. Sono diverse le intuizioni metateatrali, ma quella più agghiacciante è sicuramente il primo assassinio all’interno del teatro: Wallace, già travestito, compare da dietro le quinte e accoltella Corinne (Loredana Parrella) durante le prove, spronato da un ignaro Collins. Pura magia. Sì, sanguinosa, sporca, morbosa, ma sempre magia.

E questo non è un termine a caso. “Grande magia”, così descrive il regista la fotografia di Renato Tafuri, una combinazione d’ispirazione “baviana” (arrivato il maestro che mancava all’appello), fatta di luci accecanti -asfissianti e avvolgenti al tempo stesso le preziose gradazioni di blu- e ombre quasi tangibili, come minacce di morte. “Era una persona molto accurata, che non si accontentava. Io, abituato a un cinema da battaglia, ho assaporato cos’è aspettare i tempi del cinema più grande, dove ogni inquadratura richiede una preparazione”. Tanto che, quando la troupe entrò nella (non prevista) quinta settimana di lavoro, fu provvidenziale l’aiuto di D’Amato perché la produzione avrebbe rischiato di affogare se i tempi si fossero allungati troppo.

Un pacco perfetto, guidato da una regia fresca, asciutta, veloce. Deliria è un esercizio di maturità estetica e tecnica dalla bellezza sublime, cosparso di pezzi di bravura, dall’utilizzo del dolly (“Se Aristide avesse saputo che l’avevamo montato, ci avrebbe licenziato tutti”) alla potenza filmica della sequenza che vede Alicia sotto il palcoscenico intenta a disincastrare la chiave con un chiodo. “Feci costruire una chiave una decina di volte più grande per poter poi metterla di quinta alla macchina e, con un grandangolo, dare l’impressione di dimensione naturale”: un dettaglio squisito di “hitchcockiana” memoria. Soavi ha definito il suo passaggio verso il lungometraggio “naturale e incosciente”. Si è scordato, però, di aggiungere il termine più preciso: glorioso.


Deliria

Un film di Michele Soavi, 1987. Italia, Filmirage. Colore, 90′.

Soggetto e sceneggiatura: George Eastman. Interpreti: Barbara Cupisti, Clain Parker, David Brandon, Domenico Fiore (come Don Fiore), Giovanni Lombardo Radice, James E. R. Sampson, Jo Anne Smith, Loredana Parrella (come Lori Parrel), Martin Philips, Mary Sellers, Michele Soavi, Mickey Knox, Piero Vida, Richard Barkeley, Robert Gligorov, Ulrike Schwerk. Fotografia: Renato Tafuri, con la collaborazione di Joe D’Amato. Montaggio: Kathleen Stratton. Scenografia: Rubina Michettoni. Musiche: Simon Boswell. Gran premio della paura al Festival internazionale del film fantastico di Avoriaz 1987.

Dichiarazioni tratte da: intervista a Giovanni Lombardo Radice (Halloween Marathon Part III, 2019); interviste a Michele Soavi, Giovanni Lombardo Radice e David Brandon (Stagefright, Blue Underground Limited Edition DVD+Blu-Ray, 2021).