“Il trauma che ha provocato il suo stato confusionale, la sua amnesia, deve essersi verificato in concomitanza con la notte o, per lo meno, col buio. Infatti, quando sta per calare la luce, il suo nervosismo aumenta e passa tutte le notti alla finestra, in attesa, come se avesse paura, come se aspettasse l’arrivo di qualcuno…”.
Gianni Garko ne La notte dei diavoli. Giorgio Ferroni, 1972.

Tolstoj (no, l’altro)

Il nome di Giorgio Ferroni è principalmente legato a due generi: il peplum -la sua macchina da presa esplorò dalla guerra di Troia all’esilio di Tarquinio il Superbo- e il l western, con una bella manciata di sparatorie girate accanto a Giuliano Gemma e Anthony Steffen. Ma il regista perugino fece anche un paio di giri nei domini dell’orrore, sufficienti per incidere il suo nome nel pantheon del genere. Il primo fu Il mulino delle donne di pietra, coetaneo de La maschera del demonio. Benedetto agosto del 1960: se il film di Mario Bava diventò il capofamiglia del gotico all’italiana, quello di Ferroni ebbe l’onore di essere il primo horror italiano realizzato a colori.

Il secondo arrivò dodici anni dopo -fu, difatti, il suo penultimo lungometraggio- e l’attesa valse la pena perché La notte dei diavoli (1972) è uno dei gioielli misconosciuti dell’orrore europeo degli anni ’70. A ispirare la sceneggiatura, un figlio della gloriosa tradizione letteraria russa dell’Ottocento: La famiglia del vurdalak di Aleksej Tolstoj (1839); cugino dell’illustre Lev, fruga nel folklore slavo per riportare alla luce (si fa per dire) una razza di vampiri indistinguibili dagli esseri umani, pronti a nutrirsi del sangue dei loro amati ancora in vita al calare del sole, facendo sì -le tradizioni vanno rispettate- che diventino dei non morti anche loro.

Come in un castello dei destini incrociati, era stato Bava a intuire per primo la potenzialità cinematografica del racconto: secondo episodio de I tre volti della paura (1963), la stirpe vampiresca dei vurdalak si trasformò, nelle sue mani, in una fiaba pittorica, teatrale, ironica: memorabile il campo lungo finale che rivela la finzione del set, con Boris Karloff su un cavallo meccanico, mentre alcuni tecnici agitano degli arbusti attorno alla macchina da presa immobile. Ferroni cambiò radicalmente registro, facendone un lungometraggio molto più naturalistico e coniugando la fedeltà alle antiche fondamenta letterarie con l’ambientazione contemporanea.

Notti insonni, notti infinite

La notte dei diavoli comincia con un uomo (Gianni Garko) che esce da un bosco all’alba e, dopo pochi passi, cade stremato sulla riva del fiume. La narrazione passa allora al presente: l’uomo, in stato confusionale, assalito da mostruosi incubi, è ricoverato nella cella d’osservazione di un ospedale psichiatrico. La visita di una donna (Agostina Belli), che afferma di averlo riconosciuto grazie alla fotografia pubblicata sui giornali, provoca in -adesso lo sappiamo- Nicola, importatore di legname, una grave crisi psicomotoria, “come se quella donna facesse parte di una realtà che la sua mente ha deformato in un ricordo frustrante che vuole cancellare”.

Ancora una volta costretto a letto, imbottito di psicofarmaci e stritolato dalla camicia di forza, la sua mente si apre e ci imbarca in un lungo flashback alla scoperta di quell’altra realtà che l’ha ridotto così: durante un viaggio di lavoro, al confine con la Jugoslavia, Nicola esce di strada per evitare una donna, poi improvvisamente sparita; girovagando in cerca di aiuto per riparare la macchina, si imbatte nella famiglia Ciuvelek, che lo accoglie nella sua tenuta di campagna. Da quel momento, verrà risucchiato da un gorgo di orrore, una notte (anzi, due) solo per diavoli, fino al ritorno al tempo presente in ospedale, in un epilogo raccapricciante.

Il Bianconiglio vampiro

Ne La notte dei diavoli, Ferroni fa di nuovo sfoggio di tutta la sua maestria nella creazione di ammalianti atmosfere cinematografiche con budget poco sostanziosi a disposizione. Alla regia scarna ed efficace e al sapiente uso delle inquadrature, si unisce la stupenda fotografia di Manuel Berenguer, che aveva già lasciato la sua impronta in diversi capolavori spagnoli sia in bianco e nero -uno su tutti, ¡Bienvenido, míster Marshall! / Benvenuto, Mister Marshall! (Luis García Berlanga, 1953)- sia a colori, tra cui La residencia / Gli orrori del liceo femminile (Narciso Ibáñez Serrador, 1969), un titolo chiamato a foggiare l’immaginario di Dario Argento.

Qui, però, siamo lontani da quell’allievo sgargiante della scuola Hammer che fu Il mulino delle donne di pietra e anche dal festival in Technicolor del Tolstoj di Bava. Ne La notte dei diavoli, ad accoglierci è una tavolozza autunnale dalla bellezza avvolgente: gli esterni verdi, marroni, arancioni, dorati -non ci può stupire che, dal Francesco, giullare di Dio di Roberto Rossellini (1950) in poi, Monte Gelato abbia attirato l’attenzione di così tanti cineasti-, divenuti bluastri e grigi al chiaro di luna; gli interni polverosi, curati fino all’ultimo dettaglio, dove le tenebre vengono squarciate dalla luce delle candele e svelano primi piani spettrali.

La tana di questo Bianconiglio è la porta d’ingresso in un mondo brulicante di orrore che divora lentamente Nicola, eroe tragico in una catabasi che lo accomuna al vecchio amico di infanzia di Roderick Usher e persino a Victor Frankenstein. Ferroni punta non tanto allo spavento quanto alla angoscia costante, straniante, grazie a una disgiunzione temporale e mentale tra modernità e tradizione, tra la città, ovverosia l’ipotetica civiltà, “dove tutti se ne sono andati”, e l’apparente fine del mondo, tra la mente razionale, che rifiuta la maledizione della quale parlano i Ciuvelek, e una serie di avvenimenti disposti a sfidare qualsiasi suggestione o casualità.

Sa(r)tana

Eros, Thanatos e paletti conficcati nel cuore: La notte dei diavoli è un film dall’eleganza sublime, cullato dal romanticismo oscuro di Giorgio Gaslini, in procinto di firmare il contratto per Profondo rosso (Argento, 1975), e trainato dal lavoro di un cast che vanta una stupenda sfilza di nomi “di genere”; in testa, Belli, meravigliosamente eterea, e, soprattutto, Garko, protagonista assoluto del racconto: “Il personaggio di Nicola mi offrì una buona occasione d’interpretazione, aveva una gamma abbastanza ampia, un uomo normale che impazzisce, che non avevo mai fatto”. Il tutto a conferma della sua immensa classe e versatilità.

“Mi piace interpretare personaggi ambigui, con un doppio fondo conosciuto dal pubblico, ma non dai personaggi all’interno della storia. Perché mi chiamano a fare questo, non lo so”. Eppure non ci sono dubbi: per quella combinazione irresistibile di bellezza angelica e lato oscuro, presente nel primo (e cattivissimo) general Sartana e, più tardi, nell’incommensurabile Sette notte in nero (Lucio Fulci, 1977). “Lavorare con questo doppio registro è affascinante”. L’aveva già detto Tolstoj -adesso sì, Lev- nella Sonata a Kreutzer (1889): “È sorprendente la perfezione di questa illusione: pensare che la bellezza sia anche bontà”.

Pionieri dell’aldilà

Perché La notte dei diavoli non ha ricevuto il riconoscimento dovuto? Come, appunto, Mary Shelley, anche il Ferroni horror rimase eclissato dalla sua prima creatura -curiosamente, con tanto di omaggio finale al Frankenstein di James Whale (1931)-, a cui si aggiunse la presenza ingombrante del vurdalak di Bava e il carisma di Karloff impellicciato e con i capelli allo stato brado, autentico santino di un gotico all’italiana già agli sgoccioli quando il nostro film uscì in sala, in piena rivoluzione “argentiana”: la “trilogia degli animali” aveva visto la luce nel biennio 1970-71. La ciliegina sulla torta? Fino a pochi anni fa, non è stato facilmente reperibile.

Oggi, però, tutte le scuse sono, o dovrebbero essere, finite. La notte dei diavoli è un piccolo capolavoro dell’orrore europeo, un ponte d’oro tra la fantasia gotica classica e il linguaggio più moderno del genere, che si allaccia all’universo giallo in piena espansione -gli incubi di Nicola (nudi, sangue, cuori pulsanti) sono simili a quelli di Edwige Fenech in Tutti i colori del buio (Sergio Martino, 1972)- e preannuncia, grazie allo squisito lavoro di Carlo Rambaldi, gli eccessi gore e splatter a venire. “L’hanno trovato vicino al confino. Chissà, forse veniva dall’altra parte”. Forse, perché i nostri fantasmi troveranno sempre la strada di casa.


La notte dei diavoli

Un film di Giorgio Ferroni, 1972. Italia – Spagna, Filmes Cinematografica – Due Emme Cinematografica – Copercines. Colore, 90′.

Soggetto: Eduardo M. Brochero, tratto dal racconto “La famiglia del vurdalak” di Aleksej Tolstoj. Sceneggiatura: Eduardo M. Brochero, Giambattista Mussetto, Romano Migliorini. Interpreti: Agostina Belli, Cinzia De Carolis, Gianni Garko, Luis Suárez, Maria Monti, Roberto Maldera (come Mark Roberts), Rosa Toros, Sabrina Tamborra, Stefano Oppedisano, Teresa Gimpera, Tom Felleghy, Umberto Raho, William Vanders. Fotografia: Manuel Berenguer. Montaggio: Gian M. Messeri. Scenografia: Eugenio Liverani, Jaime Pérez Cubero, José Luis Galicia. Musiche: Giorgio Gaslini.

Dichiarazioni di Gianni Garko tratte da: “Sartana contro i vampiri”, La notte dei diavoli (Raro Video, 2012).