Sin dai suoi primi passi, il cinema fece onore al titolo di “settima arte” e, come le altre sei sorelle, cominiciò a giocare spudoratamente con la condizione umana: sentimenti e aneliti di ogni natura trovarono presto alloggio tra le bobine, dall’amore più disperato alla risata più sonora, passando -come avrebbe potuto essere altrimenti?- per le paure più ataviche. Se la prima proiezione pubblica del cinematografo dei fratelli Lumière avvenne il 28 dicembre 1895, Georges Méliès girò il primo horror già nel 1896: Le manoir du diable (La magione del diavolo).

Un gigantesco pipistrello, Mefistofele, scheletri, fantasmi e streghe: il film è una sorta di commedia gremita di trucchi “spaventosi” con l’obiettivo di destare l’ilarità e l’ammirazione del pubblico. E, poiché l’aldilà diventò un laboratorio privilegiato per la sperimentazione delle nuove tecniche cinematografiche, questa caratteristica -ovvero, l’inclusione di elementi horror all’interno di narrazioni di tutt’altra natura- fu una costante durante la stagione del muto, fino all’avvento dei signori espressionisti dell’orrore puro: il Golem, Caligari e un tale Nosferatu.

I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.
I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.

I cineasti italiani non furono un’eccezione e ornarono i primi decenni delle immagini in movimento con una manciata di gemme: la faustiana Rapsodia satanica di Nino Oxilia (1917), le scene dantesche de L’inferno (Francesco Bertolini, Giuseppe De Liguoro, Adolfo Padovan, 1911), Il mostro di Frankenstein (Eugenio Testa, 1920) o i combattimenti diabolici di Maciste nell’inferno (Guido Brignone, 1926) sono soltanto alcuni esempi di un movimento che si prospettava straordinario. Ma poi arrivò il terremoto fascista.

Con il trionfo del cinema di propaganda del regime e, subito dopo, del neorealismo, il nostro orrore svanì, inutile com’era, per ragioni opposte, a entrambi i movimenti. In quegli anni, ci furono delle opere che, tra racconto fantastico e melodramma, flirtarono con l’aldilà -da Gelosia e Il cappello da prete (Ferdinando Poggioli, 1942, 1944) a Malombra (Mario Soldati, 1942) e Il trovatore (Carmine Gallone, 1949)-, ma solo l’esplosione de I vampiri (1957) di Riccardo Freda e Mario Bava riuscì a interrompere il sogno dei giusti dei mondi di oltretomba.

Il campo di battaglia scelto dalla coppia fu, però, tutt’altro che semplice: non si trattava di creare un nuovo gusto per l’orrore nel Paese, bensì -molto peggio, come Freda ricordava spesso- di sfondare il ferreo pregiudizio che il pubblico nutriva sul fatto che fosse un italiano a farlo (e che più tardi diede origine alla memorabile tradizione dei nom de plume nel gotico patrio). Il tutto, in un mercato segnato dai successi del neorealismo rosa campagnolo e mentre Mario Monicelli girava Il medico e lo stregone, colpo di timone definitivo verso la commedia all’italiana.

Carlo D’Angelo e Dario Michaelis ne I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.
Gianna Maria Canale ne I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.

Nel 1956 Freda presentò a Goffredo Lombardo, proprietario della Titanus, un nastro audio con la sceneggiatura de I vampiri, compresi tutti gli effetti speciali. Il progetto, sulla scia dei successi horror anglosassoni, venne approvato con due condizioni: spese sotto controllo e pochi giorni di riprese. Si trattava di una sfida per il maestro del filone storico e di avventura, già con ben 18 lungometraggi alle spalle, e quest’aria rivoluzionaria permeò tutto il film, a cominciare dall’ambientazione nella Parigi del 1957 e non in un lontano e polveroso castello senza tempo.

Lo svolgersi dell’azione “nel momento” in cui lo spettatore era seduto davanti al grande schermo lo costringeva a condividere lo spazio con un assassino seriale, aumentando i livelli di adrenalina: la storia inizia fulminea con il ritrovamento del cadavere di una ragazza nella Senna, il quarto in pochi mesi; a guidare le ricerche sull’identità del “vampiro” che lascia dissanguati i corpi delle sue giovanissime vittime è l’ispettore Chantal (Carlo D’Angelo), esasperato (anche) per le intromissioni del brillante giornalista Pierre Lantin (Dario Michaelis).

I vampiri salgono su questa impalcatura gialla canonica per comporre un mosaico di tensione che, rendendo omaggio a molti capostipiti della letteratura e il cinema dell’orrore, sfocia in un inatteso e magnifico racconto fantascientifico. Nonostante le diffidenze del commissario (un’occasione d’oro per godere della classe attoriale di Carlo D’Angelo, che ci regalò pochi ruoli da protagonista), Lantin stabilisce un legame tra la nobile famiglia Du Grand e le vittime, scatenando una serie di colpi di scena che porteranno alla scoperta dell’assassino.

I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.
Paul Müller ne I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.

Gli sceneggiatori -Freda, Pietro Regnoli, Rijk Sijöstrom– sviluppano un raffinato intreccio narrativo fatto di manipolazioni psicologiche e ricatti sentimentali, che spiazza lo spettatore mostrando il “vampiro” a viso aperto nei primi minuti di metraggio, quando si appresta a uccidere una ballerina: un gioco di luci, ombre e inquadrature nel quale riecheggiano Nosferatu, Il fantasma dell’Opera e M, il mostro di Düsseldorf, presente anche -il film di Fritz Lang– nel personaggio di un musicista cieco coinvolto nelle indagini.

L’assassino, impersonato da Paul Müller (sarà lui il pope russo che recupererà la fede a calci nel sedere grazie a Don Camillo e anche il terribile visconte Cobram, fanatico di ciclismo in Fantozzi contro tutti), si rivelerà presto una pedina nelle mani del professor Julien Du Grand (Antoine Balpêtré), a sua volta, sottomesso ai desideri di sua cugina, la duchessa Giselle Du Grand (Gianna Maria Canale), in una trama affascinante e spaventosa al tempo stesso, ispirata alla vita della “contessa sanguinaria” Erzsébet Báthory.

Essa servì a Mario Bava per esperimentare delle impattanti combinazioni di luce e trucco che ci fanno vedere certe trasformazioni fisiche di Giselle “in tempo reale”, senza tagli di montaggio. E non solo: fu anche il responsabile, assieme a Beni Montresor, del Montmartre ricreato a Cinecittà e, soprattutto, degli interni ed esterni del castello Du Grand, un’ambientazione gotica squisita, curata fino all’ultimo dettaglio, che passeggia tra le righe di Dracula, Frankenstein, Berenice, La caduta della casa Usher e La maschera della Morte rossa. Pura classe.

Gianna Maria Canale ne I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.
Wandisa Guida ne I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.

A questo punto, visto il dispiegamento di forze, perché consideriamo La maschera del demonio, girato in solitario da Bava nel 1960, il nostro primo horror moderno? Perché difatti lo è, e la responsabilità ricade in buona parte sulle forbici censorie. I vampiri è una rivoluzione estetica e argomentale che ripercorre con accento italiano alcuni dei migliori topoi del genere, dallo scienziato matto alle maledizioni familiari e persino lo spirito del doppelgänger, pur tuttavia la storia trova una (spinta) spiegazione scientifica dentro del sopracitato schema poliziesco.

E di certo non era questa l’idea originale di Freda, il quale aveva concepito I vampiri come un viaggio molto più estremo nelle acque del galvanismo e della vita dopo la morte, con il dottor Du Grand come un dottor Frankenstein redivivo. Ma, quando videro quello che avrebbe dovuto essere il montaggio definitivo, lo spavento (economico) dei produttori Ermanno Donati e Luigi Carpentieri fu tale che costrinsero il regista a eliminare due scene -per lui, tra le migliori del film-, entrambe con il personaggio di Müller come protagonista.

Nella prima, veniva ghigliottinato e risuscitato applicando la sua testa a un altro corpo, testa che più tardi cascava a terra durante una colluttazione con la polizia: ecco il perché della vistosa cicatrice che appare senza spiegazioni sul collo dell’attore a metà metraggio e che non attira l’attenzione né di Chantal né di Lantin. La censura provocò che Freda abbandonasse il set su tutte le furie e che Bava finisse le riprese, dando al film l’agognata verniciatura di verosimiglianza: trama poliziesca, spiegazione scientifica e inclusione di alcune immagini di repertorio della città.

Dario Michaelis, Paul Müller e Carlo D’Angelo ne I vampiri. Riccardo Freda, 1957.
Paul Müller e Antoine Balpêtré ne I vampiri. Riccardo Freda e Mario Bava, 1957.

Nonostante i tagli impietosi, I vampiri mantiene un eccellente ritmo narrativo, il che, però, non servì a molto e venne accolto con freddezza. “Il nostro pubblico seguiva il genere se era americano: [qui] quando sui manifesti arrivava al mio nome, se ne andava via”. Ma aprì i cancelli della gloriosa stagione dell’orrore italiano e, dopo una seconda fatica targata Freda-Bava (il lovecraftiano Caltiki, il mostro immortale, 1958), La maschera del demonio li spalancò definitivamente, assumendo senza complessi l’elemento fantastico e l’aldilà.

Oltre a questo pregiudizio verso l’orrore nazionale, la radicale modernità -ancor di più, contemporaneità- e spietata sincerità degli argomenti del film risultavano scomode nel seno di una società che cominciava ad assaporare il benessere economico e a gingillarsi con l’edonismo e un capitalismo sempre più selvaggio. Il neorealismo era fuori tempo massimo e il pubblico voleva il sogno e la trasgressione, una nuova mentalità che fece germinare il filone gotico, ma I vampiri non aveva niente a che vedere con la rappresentazione oggettiva di mostri.

Ben al contrario, coglie l’essenza di ciò che per Freda era l’orrore vero, che affonda le radici nella notte dei tempi e si cela come una bestia feroce tra le pieghe dell’anima umana. Pensieri, desideri, egoismi, sentimenti di natura subconscia e inconfessabile: cosa saremmo disposti a fare per realizzare i nostri sogni più segreti? “I fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole ambigui, lacerati, bugiardi e sinceri, generosi e vili”, diceva Pasquale Lojacono, e non è facile riconoscere che anche i “vampiri”, quelli senza canini aguzzi né cappa, siamo noi.


I vampiri

Un film di Riccardo Freda e Mario Bava, 1957. Italia, Titanus – Athena Cinematografica. 78′, b/n.

Soggetto: Piero Regnoli, Rijk Sijöstrom. Sceneggiatura: Pietro Regnoli, Riccardo Freda, Rijk Sijöstrom. Interpreti: Angiolo Galassi, Antoine Balpêtré, Carlo D’Angelo, Charles Fawcett, Dario Michaelis, Gianna Maria Canale, Gisella Mancinotti, Miranda Campa, Paul Müller, Renato Tontini, Wandisa Guida. Fotografia ed effetti speciali: Mario Bava. Montaggio: Roberto Cinquini. Scenografia: Beni Montresor. Musiche: Roman Vlad.

Dichiarazioni di Riccardo Freda tratte da: Riccardo Freda, l’esteta dell’emozione (Antonio Fabio Familiari, 2004), Italian Gothic Horror Films, 1957-1969 (Roberto Curti, 2015).

E gotico fu:

LA MASCHERA DEL DEMONIO