Sono fotogenico (1980) ha vissuto la stessa sorte di altre perle di Dino Risi nate tra pinnacoli ufficiali della commedia italiana e quasi immediatamente declassate a opere -pochi termini più odiosi di questo- “minori”. Un fenomeno comprensibile in una filmografia come quella del milanese, ma che ha oscurato pezzi grandiosi della stagione, da Il giovedì (1963), succube de Il sorpasso (1962), alle (dis)avventure artistiche del nostro Antonio Barozzi. Parola di John Wayne. Più o meno.
Sono fotogenico. Dino Risi, 1980.

Il cinema nel cinema…

… il cinema visto dal cinema, il metacinema: un topos onnipresente dalla nascita della settima arte in tutte le latitudini. In particolare, le illusioni e i sogni di provincia -letterale o metaforica- schiacciati dal volto oscuro del negozio del cinematografo sono stati la materia narrativa prediletta di titoli imprescindibili come Bellissima (Luchino Visconti, 1952), La signora senza camelie (Michelangelo Antonioni, 1953) o Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965). E non solo: anche nei dintorni di carta e lustrini hanno dato alla luce gemme come Lo sceicco bianco (Federico Fellini, 1952) o Basta guardarla (Luciano Salce, 1970).

L’argomento non era nuovo neanche a Risi: l’aveva già dissezionato nel capolavoro d’immenzidà Straziami, ma di baci saziami (1968) e, nel decennio successivo, in Telefoni bianchi (1976) e Primo amore (1978), campi di prova per Sono fotogenico. Il film uscì in sala il primo giorno di primavera del 1980, con Renato Pozzetto in un ruolo da protagonista assoluto che diverrà il punto di riferimento di un altro miliario della commedia patria, Il ragazzo di campagna (Castellano e Pipolo, 1984): un provinciale ingenuo e caparbio sfida un fato affettivo e lavorativo in apparenza immutabile, traslocando in un mondo urbano profondamente ostile.

Così come il campagnolo Artemio si ribellerà al destino da contadino e lascerà Borgo Tre Case (frazione di Borgo Dieci Case) con la speranza di diventare un self-made man nella Milano da bere, Antonio, quattro anni prima e munito della sua “testa perfetta da sportello di banca”, lascia Laveno (omaggio alla cittadina dove la famiglia Pozzetto trovò rifugio durante la Seconda guerra mondiale) con destinazione Roma. Obiettivo: fuggire dalla sirena del traghetto del Lago Maggiore e buttarsi tra le braccia di altre sirene, quelle di Cinecittà. “Tu puoi diventare Toni Barozzi: è solo una questione di grinta”. Chi darebbe torto a (una fotografia di) John Wayne?

Fero e piuma

Se la mano di Mario Brega poteva “esse fero o esse piuma”, la mano di Dino Risi era entrambi allo stesso tempo: anche in Sono fotogenico, tradizione e modernità convivono a morsi e nessuna delle due scappa alla sua feroce lucidità. Da una parte, apre con precisione chirurgica il ventre della famiglia borghese di provincia, fatta di scontri e complicità tra padri, figli e nonni, eterni amici, eterna fidanzata, eterni paesaggi, al ritmo di un “mondo piccolo” da tramandare intatto ai posteri. Dall’altra, mette nel mirino un’industria cinematografica nevrotica che cominciava a cadere a pezzi, in balìa di un mutamento fruitivo ed estetico senza paragoni.

A Cinecittà, tra peculiari provini, lezioni di recitazione forse troppo libertine, amori fugaci e controfigure della Vitti, Antonio si scoprirà presto circondato da una sfilza di arrivisti e approfittatori seriali cinici e volgari, al punto che l’unico abbraccio sincero, per modo di dire, ricevuto a Roma sarà quello di Barbara Bouchet, grazie a un provvidenziale scambio di persona. Campione del mondo di affondamento di coltello nella piaga, Risi sventola le miserie di un mondo in procinto di divorare se stesso, mentre guarda il tramonto di un’era irripetibile: momenti di chiaroscuro propizi alla nascita dei mostri che lui maneggiava con maestria.

I primi chiamati a raccolta furono, eccome, i colonnelli: Mario Monicelli, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, con grande autoironia, nonché ben consapevoli dello stato comatoso in cui versava quell’universo un tempo glorioso, sono i protagonisti di un scena di metacinema e volti inquadrati male che segnerà il punto di non ritorno per Antonio. Un geniale cambio della guardia del cinema italiano, una raffinata vendetta dei cosiddetti -ecco un termine odioso quanto “minore”- “caratteristi”, perennemente disprezzati da quell’intellettualismo che, a sua volta, veniva puntualmente mandato in frantumi dalla benedetta cattiveria di Risi.

Rabelais è di Milano

Sono fotogenico è uno degli esempi più belli della commistione tra “alto” e “basso” che contraddistinse la commedia italiana degli anni ’80. Risi fu, difatti, uno dei registi che meglio seppe leggere le nuove esigenze del mercato, buttando dalla finestra senza rimpianti tutti i pregiudizi che avevano sorvolato -e sorvolavano ancora- il negozio cinematografico. Audentes fortuna iuvat, i risultati parlano da soli e non ci stupisce che Renato Pozzetto lo citi sempre tra i suoi favoriti, a braccetto con La patata bollente (Steno, 1979). Battute, tempi, gesti, espressioni: non sbaglia un colpo nelle quasi due ore di durata del film.

E non lo fa nemmeno quel genio mai abbastanza riconosciuto di Aldo Maccione, imperiale nei panni del cialtrone avvocato Pedretti. C’è l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda la selezione delle migliori scene -dal book fotografico (sketch ideato da Pozzetto, intriso “della fantasia cabarettistica che ho voluto portare nel cinema”, come la tavola imbandita de Il ragazzo di campagna, “taaac!”) alla performance teatrale d’avanguardia “nell’officina del grande Simoni”, con un incommensurabile Julien Guiomar à la Visconti e Renato novello Berger. Ma quelle con Maccione assumono contorni pressoché mitologici.

A completare i ruoli principali, la coppia senza scrupoli formata da Cinzia Pancaldi (Edwige Fenech), volubile attricetta aspirante diva, e il suo fidanzato / manager / chissà cosa Sergio (Gino Santercole). Un equipaggio perfetto per un viaggio nel paese della cinepresa spietatamente tenero e realista, che non rinuncia, però, a degli irresistibili tocchi felliniani, nei quali riecheggia la profezia di Umberto Eco a proposito di Ginger e Fred (1986): “In questa TV dipinta da Bosch, i bersagli del discorso felliniano avranno buon gioco a dire: Sì, ma noi non siamo così…”. Salvo poi trovarsi di fronte a due analisi dell’industria dello spettacolo dalla spaventosa attualità.

Le illusioni perdute

Dopo qualche schermaglia drammatica, Risi ritornò alla commedia per raccontare il crollo di un cinema imbarbarito, ipersessualizzato e prono all’invasione culturale americana. Poche speranze: l’American Dream di Antonio durerà quanto l’amplesso con la divina Fenech. Il suo grido di battaglia –“Molto meglio Laveno!”– diventa il nostro, a spasso per un mondo in mano a registi e intellettuali tra modernità e ridicolo, finti ribelli accecati da una militanza politica talmente esasperata da diventare delle penose macchiette. Come certo provino di “bertolucciana” memoria, Nudi in una mansarda mentre fuori c’è la rivoluzione: “Buongiorno / Tira giù i pantaloni”.

Il Barozzi occupa un posto d’onore nel pantheon “risiano” degli eroi. Come avevano fatto Silvio Magnozzi nel primo capolavoro del milanese (Una vita difficile, 1961), Dino Versini e Marino e Marisa, e come farà Artemio, anche Antonio si ribella contro un sistema che lo vuole conforme, malleabile, arrendevole: mostri sociali, personali o artistici che, ognuno a modo suo, lasceranno un segno indelebile nelle vite di tutti loro. Grottesco, amaro, acido, dissacrante, esilarante, malinconico: Sono fotogenico è la riscoperta del miglior Risi nella maturità. Certo, siamo capitati bene, “tra Yul Brynner e Richard Burton, mica pizza e fichi!”.


Sono fotogenico

Un film di Dino Risi, 1980. Italia – Francia, International Dean Film – Film Marceau Cocinor. Colore, 108′.

Soggetto e sceneggiatura: Marco Risi, Massimo Franciosa e Dino Risi. Interpreti: Aldo Maccione, Attilio Dottesio, Barbara Bouchet, Edwige Fenech, Ennio Antonelli, Eolo Capritti, Gino Santercole, Guido Mariotti, Julien Guiomar, Livia Ermolli, Luigi Soffrano (“Jimmy il Fenomeno”), Mario Monicelli, Massimo Boldi, Michel Galabru, Paolo Baroni, Renato Pozzetto, Roberta Lerici, Salvatore Campochiaro, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Alberto Gallitti. Scenografia: Ezio Altieri. Musiche: Manuel De Sica.