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Giorgio Scerbanenco ribaltò il panorama letterario italiano degli anni ’60 e gettò le fondamenta del noir contemporaneo. La sua penna rivoluzionaria conficcò gli stilemi del genere nella realtà nazionale, scegliendo come teatro prediletto delle storie una Milano tratta dalla cronaca nera, alle prese con le contraddizioni del boom economico e simbolo della mutazione socioculturale che attraversava il Paese.
Materiale straordinario anche dal punto di vista della settima arte -in un momento, inoltre, particolarmente propizio a questa tematica, con la nascita del cosiddetto “poliziesco all’italiana”-, i testi di Scerbanenco diedero origine a due famiglie di adattamenti cinematografici: quelli ispirati ai romanzi del medico investigatore Duca Lamberti e quelli che presero spunto dai racconti della raccolta Milano calibro 9.

PRIMA PARTE: IN CERCA DI DUCA LAMBERTI
SECONDA PARTE: DA MILANO ALL’INFERNO
Milano calibro 9, ventidue racconti indipendenti che seguono con garbo la scia strettamente noir della serie di Duca Lamberti, venne pubblicata da Garzanti nel 1969, lo stesso anno della morte del maestro Scerbanenco. E, anche se qualche testo è ambientato in altre regioni italiane, con degli accenni persino a terre svizzere e statunitensi, è sempre la sua Milano il cuore e l’anima della raccolta e delle migliori trasposizioni filmiche a essa ispirate. Una città oscura, bella e disperata, fatta di vizi inconfessabili dietro una maschera di irreprensibilità, dove l’amore e la tenerezza si devono aprire cammino a morsi ancora più feroci di quelli della malavita.
Milano calibro 9
E possiamo parlare di un veni vidi vici perché il primo film tratto dalla raccolta, l’omonimo Milano calibro 9 diretto da Fernando Di Leo nel 1972, è un ingranaggio perfetto. Certo, il de gustibus è sacrosanto, ma ci sono oggettivamente poche obiezioni da fare a questo capolavoro di regia, scrittura e direzione di attori. Fu il secondo incontro del regista con l’universo di Scerbanenco, nonché il suo secondo noir, dopo I ragazzi del massacro (1969), trasposizione di una delle ricerche più crude di Lamberti e nella quale seminò molte delle bombe tecniche ed estetiche che poi esplosero in Milano calibro 9, delineazione definitiva del suo stile.
Ugo Piazza (Gastone Moschin) esce dal carcere dopo aver scontato tre anni per rapina e viene assillato dal commissario capo (Frank Wolff) e dagli ex colleghi della banda dell’Americano (Lionel Stander), convinti che sia stato lui a prendere i 300000 dollari affidatigli durante un giro di consegne avvenuto il giorno stesso del suo ingresso in prigione. Piazza nega tutto, ma si vede costretto a rimettersi a lavorare per l’Americano sotto la sorveglianza dello scagnozzo Rocco Musco (Mario Adorf), mentre cerca la protezione della sua vecchia banda (Ivo Garrani, Philippe Leroy) e tenta di riannodare i lacci con Nelly (Barbara Bouchet).
Regista e sceneggiatore in solitario, Di Leo si ispirò al racconto “Stazione centrale ammazzare subito” e, in generale, agli ambienti e tipi che il genio di Scerbanenco strappava dalla cronaca nera quotidiana e che lui sapeva leggere come nessun altro, per girare il primo capitolo della “trilogia del milieu”, uscito in sala quando l’anno stava ancora sbadigliando. Una storia impeccabile di antieroi, kairos e kronos, in cui il tempo perfetto della vendetta soccombe al tempo inesorabile del destino. Il tutto, in una Milano sporcamente realistica, grigia e violenta, pregna di mondi -vale a dire, vecchia e nuova mafia- in collisione perenne e fatale.
Il film è una miscela irraggiungibile di polso narrativo, carica sociale e politica (memorabili, nel seno di un’Italia martoriata dal terrorismo rosso e nero, gli scontri dialettici e morali tra il fascistico commissario impersonato da Wolff e il vicecommissario Mercuri di Luigi Pistilli) e senso dell’intrattenimento. Con Milano calibro 9, sotto l’egida della sua casa di produzione, Daunia 70, Di Leo creò una nuova via nel genere che amava, una via assolutamente personale e originale che, rendendo omaggio ai classici francesi e statunitensi, diede come risultato un’opera unica e inarrivabile: il più bel noir della storia del cinema italiano.
Milano calibro 9. Un film di Fernando Di Leo, 1972. Italia, Cineproduzioni Daunia 70. Colore, ’97. Soggetto: Fernando Di Leo, tratto da Milano calibro 9 di Giorgio Scerbanenco. Sceneggiatura: Fernando Di Leo. Interpreti: Barbara Bouchet, Fernando Cerulli, Frank Wolff, Gastone Moschin, Giulio Baraghini, Giuseppe Castellano, Ivo Garrani, Lionel Stander, Luigi Pistilli, Mario Adorf, Mario Novelli, Philippe Leroy, Salvatore Aricò. Fotografia: Franco Villa. Montaggio: Amedeo Giomini. Scenografia: Francesco Cuppini. Musiche: Luis Enríquez Bacalov e gli Osanna.
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La mala ordina
Alla fine dell’estate arrivò il secondo capitolo della trilogia, La mala ordina, tratto -in una curiosa danza di titoli- dal racconto “Milano calibro 9”. Questa volta, un superbo Adorf si mette nei panni del protagonista, Luca Canali: piccolo magnaccia con una sua morale, sostanzialmente buono, viene accusato di aver rubato un grosso carico di eroina al signore della droga Corso (Cyril Cusack), che mette sulle sue tracce i killer David Catania e Frank Webster (Henry Silva, Woody Strode). Ma l’operazione, dall’esito in teoria scontato, si complica quando il boss Vito Tressoldi (Adolfo Celi), responsabile della sparizione della mercanzia, si intrufola nella “caccia all’uomo”.
Dopo il capolavoro assoluto di Milano calibro 9, il regista partorì un altro film straordinario, erede di tutti i pregi del fratello maggiore: regia dalla modernità mirabolante, profondamente personale (il lungo inseguimento sui Navigli e la sequenza finale, autentico “triello” western in un cimitero di macchine usate, sono due lezioni di cinema), ritmo, tensione e montaggio indiavolati, disegno mai facile, mai banale, della psicologia dei personaggi, cura dei dialoghi, ricostruzione precisa degli ambienti della malavita –night club, droghe, prostituzione, scontro tra vecchia e nuova mafia- e indispensabile bomba di profondità politica.
La mala ordina dà, però, una sterzata alla messinscena: girato in buona parte di giorno, mette una Milano luminosa (magnifica la fotografia di Franco Villa, come del resto in tutta la trilogia) al servizio di una storia che all’inizio adotta dei toni ironici, parodiando i topoi del genere: dall’aspetto e i modi dei sicari americani di Silva e Strode alla richiesta di Corso di ammazzare Luca “in maniera che tutta l’Italia ne parli, un’esecuzione spettacolare. Gli italiani hanno in mente uno strano tipo di gangster: esattamente voi”. Ma, come il deus ex machina di Milano calibro 9, anche ne La mala ordina Di Leo scatena, con uno spiazzante giro di vite, una cascata di devastante brutalità.
Nel 1973 vide la luce (si fa per dire) Il boss, con Silva al centro di una vendetta, in quest’occasione, basata sul romanzo Il mafioso di Peter McCurtin e ambientata in una Palermo dolorosamente nera, sia dal punto di vista fisico che morale. Fu il gioiello di chiusura di una trilogia magistrale, con pochi paragoni nella storia del cinema, che diventò un punto di riferimento tecnico ed estetico fondamentale per tutto il noir e il poliziesco a venire, troppo spesso -come succede, un nome a caso, a Quentin Tarantino– in equilibrio precario tra l’omaggio e il plagio. Ma di genio ce n’è uno, nacque a San Ferdinando di Puglia e si chiama Fernando Di Leo.
La mala ordina. Un film di Fernando Di Leo, 1972. Italia – Germania, Cineproduzioni Daunia 70 – Hermes Synchron. Colore, 92′. Soggetto: Fernando Di Leo, tratto da Milano calibro 9 di Giorgio Scerbanenco. Sceneggiatura: Augusto Finocchi, Fernando Di Leo, Ingo Hermes. Interpreti: Adolfo Celi, Cyril Cusack, Femi Benussi, Francesca Romana Coluzzi, Franco Fabrizi, Gianni Macchia, Henry Silva, Luciana Paluzzi, Mario Adorf, Peter Berling, Sylva Koscina, Woody Strode. Fotografia: Franco Villa. Montaggio: Amedeo Giomini. Scenografia: Francesco Cuppini. Musiche: Armando Trovaioli.
Liberi armati pericolosi
Dopo La mala ordina, il diluvio? Quasi. Contro la squadra Di Leo – Scerbanenco c’è poca partita (anzi, nessuna), ma anche analizzando Liberi armati pericolosi (1976), terzo adattamento della raccolta, in maniera indipendente, è evidente che si tratta di un film fatalmente penalizzato da alcune scelte tecniche e artistiche. Tratto dal racconto “Bravi ragazzi bang bang” e con la collaborazione del pugliese alla sceneggiatura, segue l’escalation di violenza in cui piombano tre annoiati giovani borghesi, una successione di “bravate” che arriva fino all’omicidio; grazie alla soffiata di Lea, fidanzata di Luis, il gruppo si ritrova la polizia alle calcagna.
Romolo Guerrieri aveva già girato un notevole poliziesco, La polizia è al servizio del cittadino? (1972), e dimostra la sua perizia anche in Liberi armati pericolosi, in particolare nell’assalto al supermercato, nell’inseguimento tra forze dell’ordine e delinquenti -prima in macchina e poi a piedi, attraverso la campagna meneghina- e nel bel colpo di scena finale. A questo si aggiungono una scenografia e una sceneggiatura (la mano di Di Leo si palesa nei dialoghi, pieni di riferimenti pubblicitari e culturali) che mostrano quella faccia scura della società di massa, sempre più violenta e individualista, catturata con precisione da Scerbanenco.
Tuttavia, l’inenarrabile quartetto protagonista vanifica ogni sforzo: Lea (Eleonora Giorgi), senza forza né pathos, risulta priva della più elementare credibilità e i fuggitivi Luis, Biondo e Giò (Max Delys, Stefano Patrizi e, soprattutto, Benjamin Lev), assolutamente fuori parte, fastidiosi ed esasperanti; tra gli “amici” dei ragazzi, spunta il breve esordio cinematografico di uno sbarbato Diego Abatantuono. Qualche cosa da salvare? Sì, Tomas Milian, nello stesso anno che diede i natali a “er Monnezza” e a Nico Giraldi: commissario progressista e crepuscolare incaricato del caso, “er cubano romano” è, come sempre, magnifico.
Un pesce brillante -perfetta l’intesa con la voce di Ferruccio Amendola– in un mare di mediocrità attoriale, che ha, però, pochi minuti in scena per risollevare il tutto e deve, inoltre, fare i conti con un personaggio stereotipato in eccesso: le conversazioni in questura con i genitori dei giovani diventano, così, una cazziata sociologico-moralistica troppo lontana dalle riflessioni sincere e provocatorie sull’origine del male ne I ragazzi del massacro e dai dialoghi sulfurei tra Wolff e Pistilli in Milano calibro 9. Un’occasione mancata, sfortunatamente, perché le premesse per fare un poliziesco dal sapore “scerbanenchiano”, violento e senza speranza, c’erano.
Liberi armati pericolosi. Un film di Romolo Guerrieri, 1976. Italia, CPC Città di Milano – Staco Film. Colore, 93′. Soggetto: tratto da Milano calibro 9 di Giorgio Scerbanenco. Sceneggiatura: Nico Ducci, Fernando Di Leo. Interpreti: Antonio Guidi, Benjamin Lev, Diego Abatantuono, Eleonora Giorgi, Giorgio Loccuratolo, Luciano Baraghini, Max Delys, Ruggero Diella, Stefano Patrizi, Tomas Milian, Venantino Venantini. Fotografia: Erico Menczer. Montaggio: Antonio Siciliano. Scenografia: Francesco Cuppini. Musiche: Enrico Pieranunzi e Gianfranco Plenizio.
Di più?
Purtroppo, sì: ¡Dispara!, coproduzione ispano-italiana girata da Carlos Saura nel 1993, che prende spunto dal racconto “Spara che ti passa” (storia di Anna, artista circense violentata da un gruppo di ragazzi ubriachi), ma nella quale qualsiasi altro legame con Scerbanenco è inesistente. Un film tecnicamente ed esteticamente sgradevole (inspiegabile il voyeurismo nelle scene di violenza sessuale), con una sceneggiatura incongrua e forzata e una recitazione ridicola, sia quella di Francesca Neri, improponibile “angelo della vendetta”, sia quella di Antonio Banderas, spaesato giornalista senza alcun senso drammatico.
Tra i punti più bassi della filmografia di un Saura che non ha niente a che vedere con il regista responsabile delle magiche collaborazioni con Geraldine Chaplin, della “trilogia del flamenco” o di altri meravigliosi adattamenti cinematografici di opere letterarie, come La caccia (1966) e ¡Ay, Carmela! (1990). Per finire, fuori già dai domini di Duca Lamberti e Milano calibro 9, ricordiamo due film molto liberamente ispirati alla produzione dello scrittore: sul grande schermo, L’assassino è costretto a uccidere ancora (Luigi Cozzi, 1975), dal romanzo Al mare con la ragazza e stroncato dalla censura per le scene di sesso e violenza.
E, per il ciclo televisivo “Alta tensione” (1989), L’uomo che non voleva morire, dal racconto omonimo della raccolta I centodelitti, con Lamberto Bava dietro la macchina da presa e rimasto inedito fino al 2007. Queste ultime opere così flebili non devono, però, ottenebrare il cielo: quando Liberi armati pericolosi scese in campo, la partita era finita e dall’arte poliziesca di Scerbanenco era già stata tratta una manciata di quei gioielli che ti fanno innamorare del cinema: I ragazzi del massacro, La morte risale a ieri sera, Milano calibro 9 e La mala ordina. Quattro opere d’arte e tre su quattro per Di Leo. Niente male.