Salvatore Giuliano lo vivo come presente, non come memoria. Portella della Ginestra è la prima di tutte le stragi politiche che in tutti questi anni hanno sconvolto l’Italia. Come si fa a dimenticare quest’ombra che noi italiani ci portiamo appresso?

— Francesco Rosi.

Salvatore Giuliano aveva già attirato l’attenzione del cinematografo prima che il capolavoro di Francesco Rosi vedesse la luce nel 1962. Titoli come I fuorilegge (Aldo Vergano, 1950) o Morte di un bandito (Giuseppe Amato, 1961) si erano ispirati alla sua figura, ma facendo leva melodrammatica sul mito romantico e spogliandolo di qualsiasi trascendenza sociopolitica. Rosi fu il primo a riconoscere in Giuliano la comunella dell’Italia del secondo Novecento, dissezionando la strage di Portella della Ginestra, la morte di Turiddu, il processo di Viterbo alla banda e l’avvelenamento in carcere del suo braccio destro, Gaspare Pisciotta.

Frank Wolff in Salvatore Giuliano. Francesco Rosi, 1962.

Terzo lungometraggio del regista napoletano, dopo La sfida (1958) e I magliari (1959), il film significò il suo ritorno in Sicilia, dove aveva dato i primi passi come assistente alla regia di una delle colonne portanti del neorealismo, La terra trema (Luchino Visconti, 1948), un’eredità artistica brillantemente accettata, ma anche ampiamente superata, da Salvatore Giuliano. Il realismo critico di Rosi non si ferma alla ricreazione minuziosa e imparziale dei fatti, “che devono parlare da soli”: lui li rivive, dona un cuore pulsante a ciò che era un mostro di Frankenstein composto di atti ufficiali, testimonianze dirette e ogni sorta di scartafaccio.

In altre parole, Salvatore Giuliano è realtà, fa toccare con mano allo spettatore la piovra cospirativa che, dalla fine della Seconda guerra mondiale e per più di un decennio, trasformò la storia del Paese. Esempio luminoso di cinema “documentato, non documentario”, la troupe setacciò durante mesi i domini palermitani di Giuliano, quel triangolo di bellezza arcana tra Montelepre, Borghetto e Partinico, nell’entroterra palermitano, per individuare i nascondigli della banda, i teatri delle imboscate e il luogo della morte, anzi, il cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano “dove fu visto” il cadavere del bandito la mattina del 5 luglio 1950.

“Rosi trasferisce sullo schermo una verità non solo cronachistica o giudiziaria”, affermò Tullio Kezich, “è uno psicodramma collettivo”. Perché, oltre ai luoghi fisici, una coorte di testimoni diretti degli eventi -da contadini a commercianti, da pastori ad artigiani, passando per parenti delle vittime di Portella- partecipò alle riprese. Con loro, il regista stabilì un rapporto personale che lo costrinse a realizzare diverse modifiche alla sceneggiatura e degli aggiustamenti alle scene, molti nati tra un ciak e l’altro: “Capii che il film non poteva nascere a tavolino: bisognava tirarlo fuori da quella gente, dalle loro emozioni, che si portavano dentro intatte”.

Salvatore Giuliano. Francesco Rosi, 1962.

Il film si apre con la rappresentazione della fotografia del cadavere di Giuliano: il corpo inerme è al centro dell’inquadratura, una lenta panoramica lo scruta. Intorno a lui, il medico legale e gli ufficiali giudiziari; ai margini, il pubblico. Una scena teatrale, chiave di lettura dell’opera. Più tardi vedremo lo stesso cortile qualche ora prima, con la macchina da presa fissa e ravvicinata per nascondere le facce di quelli che stanno aggiustando le arti del bandito e spostando il fucile. La messinscena finisce con una raffica di mitra che spazza via la verità e fa posto alla versione ufficiale: Giuliano è morto di notte, dopo uno scontro a fuoco con i carabinieri che nessuno ascoltò.

Due ore di struttura narrativa frammentata che, unita allo straordinario montaggio di Mario Serandrei -questione di ordinaria amministrazione per uno dei diamanti del neorealismo, della commedia all’italiana e del maestro Mario Bava-, ci fa nuotare nella confusione di un momento storico decisivo, tra raffinate ellissi narrative e qualche geniale tranello visivo: dal 1943, quando Giuliano, attivo nel mercato nero, uccise un carabiniere e si diede alla macchia, al 1954, quando un caffè alla stricnina silenziò per sempre Pisciotta, ex viceré della campagna palermitana, con tanto di lasciapassare del ministro Scelba in tasca.

Salvatore Giuliano. Francesco Rosi, 1962.

Una preziosa ricostruzione delle atmosfere materiali, mentali e morali al servizio di un rompicapo fatto di tasselli di falso documentario, thriller, film d’inchiesta e dramma giudiziario, che passa in rassegna le ariste del “mito Giuliano”, usato dal potere potere politico-mafioso e poi eliminato in quanto scrigno di segreti di tutte le fazioni. In loro soccorso arrivò la strage di Portella della Ginestra: il primo maggio 1947, la banda Giuliano trucidò, almeno ufficialmente, 14 civili e ne ferì 27. La sequenza è un prodigio tecnico, con un uso predominante della camera a spalla per buttarci in mezzo all’inferno di spari che arrivano da fuori campo. Di nuovo, il nemico invisibile.

E ugualmente prodigiosa è la caccia all’uomo, la pressione asfissiante delle autorità per buttare giù il muro di omertà e terrore con cui la popolazione continuava a proteggere “il re di Montelepre” (“A Turiddu non lo piglia nessuno / Fino a quando farà comodo a qualcuno: il limone si esprime e poi si getta”). Il tutto, sublimato dalla fotografia di Gianni Di Venanzo, tra panoramiche sfavillanti e vicoli e stanze al buio, come un palcoscenico e le sue quinte con ius vitae ac necis. E poi, l’incarcerazione di Pisciotta, ultimo membro della banda a cadere, e quel processo-farsa che, se fosse sceso nelle zone d’ombra del caso, avrebbe rischiato di far saltare in aria la nazione.

Salvo Randone in Salvatore Giuliano. Francesco Rosi, 1962.

In quest’epopea, solo due sono gli attori professionisti. Salvo Randone, gioiello del nostro miglior cinema e teatro, intrappolato nei suoi ultimi anni in un criminale oblio, dà vita al presidente della Corte d’Assise di Viterbo. Frank Wolff presta corpo e volto a Pisciotta (la voce, Turi Ferro) nel suo primo incontro con il cinema italiano, dove era destinato a lasciare un solco profondo, anch’esso incomprensibilmente ignorato. Entrambi a confermare in maniera maestosa un’affermazione fondamentale per capire la cinematografia di Rosi, già citata in occasione di Cadaveri eccellenti (1976): “Se non amo l’attore che scelgo, non è possibile per me realizzare un film”.

Randone, che ripeterà con il regista ne Le mani sulla città (1963), è il magistrato solo, la dignità, il dolore per la terra; Wolff, la forza tellurica che la cinepresa segue carnalmente sulle montagne e per le strade, la belva braccata che si riconosce autore della morte di Turiddu. Una bomba ad orologeria nel ventre del Paese: “Esiste un documento con i nomi di quelli che parteciparono alla strage di Portella e quelli che la ordinarono: questo è il vero memoriale di Giuliano!”. Ma il memoriale, il diario del bandito, l’autobiografia di Pisciotta: tutto sparì. “Questo non è un processo”, dirà Giuseppe Fava ne La violenza (1969), “è un gioco di prestigio!”.

Nel memoriale pervenuto alla Corte, Giuliano non ha scritto i nomi dei mandanti, contro la mia volontà, portando i suoi compagni alla rovina. Questa è la ragione per cui l’ho ucciso. Ma io consegnai il vero memoriale al colonnello dei carabinieri, l’uomo con il quale collaboravo. Tutti noi servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti e i monarchici. Loro sono a Roma, con le loro cariche, mentre a noi ci hanno ammanettato e scaricato in galera. Tutti fummo confidenti: banditi, polizia e mafia erano tutti una trinità!

Frank Wolff in Salvatore Giuliano. Francesco Rosi, 1962.

Salvatore Giuliano è etica ed estetica in perfetta fusione, santo patrono -assieme al sopracitato Le mani sulla città– del “cinema civile”, denuncia e profezia. Denuncia delle connessioni tra banditismo, mafia, separatisti, polizia e politica, della corruzione e gli insabbiamenti, delle infinite connivenze tra potere legale e illegale. Profezia -anzi, fine capacità di osservazione e analisi- sulla “sicilianizzazione” dell’Italia, come definita da Leonardo Sciascia. Curiosamente, lo scrittore criticò ciò che, a suo avviso, era una mitizzazione della figura del bandito. Accuse che, come quelle mosse contro Pietro Germi per In nome della legge (1949), sfiorano il ridicolo.

Il Salvatore Giuliano di Rosi non è un eroe, nemmeno un mito: non lo vediamo, lo ascoltiamo di rado e solo fuori campo, la sua psicologia e la sua causa, qualsiasi esse fossero, ci sono indifferenti. La cinepresa si interessa al suo corpo solo quando è morto perché l’unico valore di Turiddu è quello simbolico: il “cadavere eccellente” che fece calare il sipario sulla vecchia mafia e inaugurò una nuova stagione italiana di terrorismi rossi e neri e stragi orfane delle quali nessuno sa niente. Come di Giuliano, appunto, del quale “di sicuro c’è solo che è morto”, nelle parole di Tommaso Besozzi, giornalista de L’Europeo, il primo a denunciare le inconsistenze della versione ufficiale.

75 anni dopo la prima strage di Stato, l’Italia continua a essere un gioco di prestigio, un paradiso di santissime (e sporchissime) trinità.


Salvatore Giuliano

Un film di Francesco Rosi, 1962. Italia, Lux – Vides – Galatea. 123′, b/n.

Soggetto e sceneggiatura: Francesco Rosi, con la collaborazione di Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas. Interpreti: Frank Wolff, Salvo Randone. Fotografia: Gianni Di Venanzo. Montaggio: Mario Serandrei. Scenografia: Sergio Canevari, Carlo Egidi. Musiche: Piero Piccioni.

Dichiarazioni tratte da: Michel Ciment, Dossier Rosi (Il castoro, 2008),  Tullio Kezich, Salvatore Giuliano (FM, 1961).

“La gente non dovrà mai sapere la verità”:

CADAVERI ECCELLENTI, BECCHINI ECCELLENTI