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Con l’avvento degli anni ’70, sceriffi, cacciatori di taglie e polverosi fuorilegge vennero sostituiti sul grande schermo da commissari, cittadini ribelli e malavitosi di ogni sorta. E, se dal western ufficiale era nato il (glorioso) western all’italiana, dal poliziesco ufficiale nacque il (glorioso) poliziesco all’italiana. Dopo i primi lavori di progettazione del filone negli ultimi anni ’60, a gettarne le fondamenta fu il nuovo decennio con titoli come il capostipite La polizia si incazza ringrazia (Stefano Vanzina, 1972) e La polizia incrimina, la legge assolve (1973), ovvero la lotta del commissario di ferro Belli (Franco Nero) contro la criminalità genovese.
Cintura nera di azione e accoltellamento del sistema, il film diretto da Enzo G. Castellari incassò più di un miliardo e mezzo di lire al botteghino, successo che provocò il consueto miracolo di moltiplicazione: se in pieno uragano western erano stati i nomi di Django, Sabata, Ringo e Sartana a spuntare in tutte le locandine, durante la fiammante stagione poliziesca arrivò il turno delle città violente e dei tutori dell’ordine con personali visioni della legalità vigente. Ma, come spesso succede, molti furono i chiamati e pochi gli eletti per sedersi nel pantheon del genere: in testa, i baffut(issim)i commissari Betti e Tanzi di Maurizio Merli.
Maurizio Merli (I): la trilogia del commissario Betti
L’esordio del commissario Betti, Roma violenta (1975), avrebbe dovuto essere un seguito de La polizia incrimina, la legge assolve firmato dal proprio Castellari, ma diverse vicissitudini contrattuali finirono per mettere al mondo una storia indipendente con suo padre, Marino Girolami, dietro la macchina da presa. Un cambio provvidenziale: al regista -che, dopo una manciata di commedie erotiche, scelse lo pseudonimo Franco Martinelli per quest’avventura- non piaceva il nome vagliato dai produttori, Richard Harrison, e, dopo un infruttuoso colloquio con Luc Merenda, fu Merli, con il quale aveva già lavorato in tre occasioni, ad avere la meglio.
Roma violenta. Marino Girolami, 1975.
Fresco del successo de Il giovane Garibaldi (Franco Rossi, 1975), l’attore romano calò l’asso di un fascino glaciale fatto su misura per l’universo poliziesco. E la sfida non era semplice. Betti, nato dalla penna di Vincenzo Mannino, ricalcava i tratti caratteriali del suo predecessore, il che, unito alla palese somiglianza fisica con Nero, rischiava di ridurlo a una mera copia, ma Merli fece suo il personaggio: un commissario dal carisma sconfinato, coronato dall’armonia tra la sua prestanza fisica e il doppiaggio di Pino Locchi, né santo né eroe, credibile e affascinante, dai metodi speditivi e principi saldi, troppo utile nell’ombra, comodo capro espiatorio per i superiori.
Per tutta la trilogia, Betti si vedrà intrappolato in una ragnatela fatta di garantismo a volte suicida, colleghi divenuti corone da morto e medaglie al valore, cittadini esasperati sempre meno fiduciosi verso le istituzioni e dubbi sull’esito di un crescendo di violenza che sembra non avere alternative. Nella sequenza iniziale di Roma violenta, l’uccisione di un ragazzo su un autobus nel corso di una rapina risveglia i fantasmi del commissario, il cui fratello morì in simili circostanze; da allora, la storia procede attraverso una serie di quadri tesi a illustrare la lotta personale e professionale di un poliziotto che ha il mestiere “come ragione di vita”.
Vittima del solito accanimento della Critica®, sottovalutato, bistrattato spesso e volentieri per partito preso, a Roma violenta manca di sicuro un filo argomentale solido -peccato non estraneo al genere- e, a conseguenza di questo carattere episodico -un susseguirsi di rapine, furti, inseguimenti, scontri a fuoco, uccisioni, pestaggi-, anche un contraltare all’altezza del commissario Betti, che trascorre quasi 90 minuti a dare caccia a malavitosi intercambiabili di tutte le estrazioni, tra cui i sempre efficaci Marcello Monti, John Steiner e Luciano Rossi. Ma è ugualmente vero che il veterano regista sa sovrapporsi ai punti deboli e tira fuori una perla del nostro poliziesco.
Roma violenta. Marino Girolami, 1975.
Nell’Italia di piombo e sangue, dove persino Mario Bava ha rivolto gli occhi verso la cronaca quotidiana (Cani arrabbiati, 1974), i segnaposti della Roma del primo Betti sono bische, rapinatori, ricettatori, borseggiatori, sfasciacarrozze, informanti e agenti speciali. Fausto Zuccoli, direttore della fotografia della trilogia, disegna qui una città livida, senza speranza, calderone privilegiato per mescolare tutti i topoi e molti dei volti fondamentali del filone: oltre a quelli già citati, occupano due posti d’onore Ray Lovelock, nei panni del brigadiere Biondi, uomo di assoluta fiducia del commissario, e Silvano Tranquilli, paziente (per forza) capo della squadra mobile.
Roma violenta si divide in due atti: alla potente scarica di adrenalina del primo, segue una seconda parte più noir, a partire dalla sospensione del commissario per eccesso di zelo, incentrata sull’esperienza a capo della squadra di vigilantes creata dall’avvocato Sartori (ultimo grande ruolo di Richard Conte) per difendere il quartiere dalla criminalità dilagante. Un felice espediente narrativo che consente a Merli di spaziare tra Harry Callaghan e Paul Kersey, vale a dire, tra Clint Eastwood e Charles Bronson nei basilari Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Don Siegel, 1971) e Il giustiziere della notte (Michael Winner, 1974).
Sanguigna, pervasa da una vena malinconica e, appunto, violenta, sia per i metodi poco ortodossi di Betti sia per la rappresentazione senza sconti delle azioni della malavita, dal “Chiodo” Steiner che farebbe impallidire Erode a uno stupro sotto gli occhi del padre della vittima: Girolami sforna un’opera dal ritmo incalzante e, anche se non è -ecco l’ingenerosa litania che accompagna i commenti sul film- né Castellari né Umberto Lenzi, dimostra mestiere, verve e senso dell’azione, con picchi tecnici come l’inseguimento tra l’Alfa Giulia di Betti e la BMW del Chiodo sulle note del Gangster Story dei fratelli De Angelis, in parte riciclato da La polizia incrimina.
Napoli violenta. Umberto Lenzi, 1976.
Otto minuti memorabili, con un frammento sbalorditivo sulla sopraelevata, per far salire agli altari del genere un Merli imperiale, senza controfigura, con il vento in faccia e una mascella pronta a sfidare le leggi della fisica, accelerando con il piede sinistro, mentre con quello destro calcia via ciò che è rimasto del parabrezza. Dopo un’innovativa campagna pubblicitaria -la città venne tappezzata da manifesti gialli e neri con su scritto Roma violenta, prima, e Maurizio Merli in Roma violenta, dopo-, il film fece saltare in aria il botteghino: due miliardi e seicentoquindici milioni di lire d’incasso, il poliziesco all’italiana più visto sul grande schermo.
Due furono le conseguenze della rivoluzione Betti: l’accelerazione del processo di serializzazione dei commissari in equilibrio sul filo del rasoio della legalità -al più importante, Tanzi, protagonista di un magnifico dittico targato Lenzi, dedicheremo la seconda parte dell’articolo- e la continuazione, eccome, della saga. Grazie al temporaneo passaggio di consegne precisamente a Lenzi, Napoli violenta (1976), dissezione di una malavita partenopea tutt’altro che sconosciuta al nostro, diventò uno dei migliori polizieschi all’italiana, uno dei migliori polizieschi puri del regista, uno dei migliori Merli e il miglior episodio della trilogia. “Scusa se è poco” (cit.).
Napoli violenta non perde del tutto il sapore episodico della sua predecessora, ma lo incastona in una sceneggiatura compatta, dinamica, dalla grande efficacia narrativa. Merli, in controllo assoluto del personaggio, trova finalmente un contraltare alla sua altezza, anzi, tre –Barry Sullivan, John Saxon e un meraviglioso Elio Zamuto-, attraverso i quali il film esplora le diverse facce della criminalità e la difficile convivenza tra “vecchia” e “nuova” mafia analizzata anche da Fernando Di Leo in Milano calibro 9 (1972): boss camorristi, guappi, rapinatori, ladruncoli da strapazzo, imprenditori corrotti, speculatori edilizi, narcotrafficanti.
Napoli violenta. Umberto Lenzi, 1976.
Senza calcare troppo la mano sugli aspetti folkloristici (sorvoliamo sullo scugnizzo strappalacrime), Lenzi sfrutta i diversi ritmi sociali e culturali di una città dove tradizione e modernità sono condannate a capirsi, tensione plasmata dalla “funky tarantella” del maestro Franco Micalizzi, che da questo momento comporrà le colonne sonore della trilogia e di Tanzi. Il regista toscano sceglie un taglio ancora più sporco, cinico e violento del primo episodio -lettera di presentazione: Betti, appena sceso dal treno, prende a “cofanate” un ladro di automobili-, compresa qualche goccia splatter, da una morte su un’inferriata a un raggelante cranio fracassato.
Se a questo aggiungiamo una regia e una messinscena strabilianti, un montaggio particolarmente ben equilibrato e perfino dei tocchi godardiani, con tanto di infiltrazioni in un vero funerale e in una vera banca, il risultato è un film dal ritmo mozzafiato, sublimato da una spettacolarità tecnica con pochi paragoni. “Io mettevo la macchina da presa legata sul torace del pilota”, ricordava Lenzi, “in modo che inquadrasse sia il contachilometri e la parte anteriore del manubrio sia la strada senza cameraman”. Uno su tutti i gioielli di azione pura: il triplo inseguimento tra Merli e Zamuto, prima in motorino e in macchina, poi a piedi e, per ultimo, a bordo della funicolare di Montesanto.
Una sequenza da antologia. “Mentre la teleferica, che ha una pendenza del 20%, saliva, Maurizio poteva solo appoggiare i tacchi delle scarpe su dei minuscoli tacchetti di legno”, continua il regista, “mentre io, il macchinista e il cameraman lo riprendevamo di fronte, con tutto il panorama di Napoli. Ogni dieci metri, c’era un pilone a 50 centimetri di altezza…”. Così, dopo la cruda iconicità di Roma violenta, la spettacolare lezione di cinema di genere di Napoli violenta scosse di nuovo il botteghino -secondo poliziesco all’italiana più visto al cinema, oltrepassando i due miliardi di lire d’incasso- e spianò la strada al terzo e ultimo appuntamento con Betti.
Italia a mano armata. Marino Girolami, 1976.
Girolami, che nel frattempo aveva continuato a farsi le ossa nel genere con Roma, l’altra faccia della violenza (1976) riprese in mano le redini della saga in Italia a mano armata (1976), poliziesco canonico, duro, che strizza l’occhio all’atmosfera dei road movie e vede Betti a cavallo tra tre capitali violente -Torino, Milano, Genova, quest’ultima già accennata nel secondo capitolo- sulle orme di Jean Albertelli (ancora Saxon), uomo d’affari di giorno, signore della droga di notte. Un unico grande caso, dunque, come fulcro di una sceneggiatura avvincente e ben intrecciata, al netto di qualche sbavatura e di un ingenuo deus ex macchina a metà metraggio.
Queste debolezze non intaccano, però, un film con un dosaggio altamente effettivo della violenza -menzione speciale all’esecuzione in pieno stile Profondo rosso (Dario Argento, 1975) di un agente in una cava-, una schiera di nomi infallibili -assieme a Saxon, Raymond Pellegrin, Aldo Barberito, Toni Ucci-, una suggestiva mescolanza di location urbane e campagnole e un ritmo serrato: uno scuolabus sequestrato proprio sotto i titoli di testa, inseguimenti sui navigli e tra i carruggi genovesi, sparatorie, rapine e indagini incalzanti, il tutto al ritmo delle frenetiche musiche di Micalizzi, riprese da Quentin Tarantino in Grindhouse (2007).
Una fedeltà assoluta al filone attraversata da una sincera ricerca della drammaticità (qualche scivolone zuccheroso c’è, ma nemmeno Lenzi ne uscì indenne), che ci regala un Merli più riflessivo, tenero e ironico, nel mezzo di una crisi professionale -elettrizzante la sequenza nel carcere di Marassi / San Michele- e personale: un servitore dello Stato a tempo pieno, ma anche un uomo in balia dei morsi feroci della solitudine, al centro di una spiazzante e probabilmente perfetta chiusura della trilogia, nella quale si può sentire il riecheggiare dell’ultimo Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco, che comincia ad avere paura di invecchiare “e non fare in tempo a ripulire il mondo”.
Italia a mano armata. Marino Girolami, 1976.
Roma violenta. Un film di Marino Girolami, 1975. Italia, Flaminia Produzioni Cinematografiche. Colore, 85′. Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Mannino. Interpreti: Attilio Duse, Benito Stefanelli, Daniela Giordano, Giuliano Esperati, John Steiner, Luciano Rossi, Marcello Monti, Maurizio Merli, Ray Lovelock, Richard Conte, Silvano Tranquilli, Tom Felleghy. Fotografia: Fausto Zuccoli. Montaggio: Vincenzo Tomassi. Scenografia: Antonio Visone. Musiche: Guido e Maurizio De Angelis.
Napoli violenta. Un film di Umberto Lenzi, 1976. Italia, Paneuropean Production Pictures. Colore, 91′. Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Mannino. Interpreti: Attilio Duse, Barry Sullivan, Elio Zamuto, Giovanni Cianfriglia, Guido Alberti, John Saxon, Luciano Rossi, Maria Grazia Spina, Massimo Deda, Maurizio Merli, Nino Vingelli, Silvano Tranquilli, Tom Felleghy. Fotografia: Fausto Zuccoli e Sebastiano Celeste. Montaggio: Vincenzo Tomassi. Scenografia: Giorgio Bertolini. Musiche: Franco Micalizzi. Dichiarazioni tratte da: intervista a Umberto Lenzi, Napoli violenta (Cecchi Gori Home Video, 2006).
Italia a mano armata. Un film di Marino Girolami, 1976. Italia, Paneuropean Production Pictures. Colore, 101′. Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Mannino. Interpreti: Aldo Barberito, Daniele Dublino, Dino Matielli, Franco Borelli, John Saxon, Marcello Monti, Massimo Vanni, Maurizio Merli, Mirella D’Angelo, Raymond Pellegrin, Rocco Oppedisano, Sergio Fiorentini, Toni Ucci. Fotografia: Fausto Zuccoli. Montaggio: Vincenzo Tomassi. Scenografia: Antonio Visone. Musiche: Franco Micalizzi.