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Campagna fiorentina, 1885. Dopo la morte del patriarca dei Casamonti, il figlio più benestante, Nando (Paul Frankeur), rileva le quote dei fratelli e permette a Stefano (Pietro Germi), unico erede “morale”, di occuparsi della tenuta famigliare “La viaccia” fino alla propria morte. Come contropartita, chiede il trasferimento a Firenze del nipote Amerigo (Jean-Paul Belmondo), per farlo lavorare nella sua bottega. Stefano acconsente, scongiurando Ghigo di ingraziarsi lo zio, la cui cagionevole salute fa sperare in una non lontana nuova eredità. Ma in città, l’amore per la prostituta Bianca (Claudia Cardinale) sconvolgerà la vita del giovane.


Se ci chiedessero di elencare i registi cosiddetti “politici” del cinema italiano, la nostra mente volerebbe subito verso i colonnelli: Elio Petri, Francesco Rosi, Florestano Vancini o Marco Bellocchio, per citarne solo alcuni. Ma, evitando un ragionamento a compartimenti stagni e ricordando l’etimologia di πολιτική, ovverosia “l’arte che attiene alla città-stato”, sintetizzata da Thomas Mann (“Tutto è politica”) e da Gian Maria Volontè (“Il cinema apolitico non esiste: è un’invenzione dei cattivi giornalisti”), possiamo definire la cinepresa di Mauro Bolognini come un’analista politica sensibile, elegantemente incisiva e profondamente poetica.
Regista prolifico ed eclettico -quasi una cinquantina di titoli, compresa una delle più belle prove del duo Totò – Peppino De Filippo, Arrangiatevi (1959)-, il pistoiese documentò la transizione dal vecchio al nuovo mondo sulla scia del grande racconto otto-novecentesco (ragion per cui è stato vincolato al cinéma de papa, “espressione orribile e falsa”, come definita da Bertrand Tavernier), nella quale si incastra La viaccia (1961): ispirato a L’eredità (1889) di Mario Pratesi e sceneggiato da Vasco Pratolini, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa, è uno scrigno dove ogni tratto distintivo della cinematografia di Bolognini appare sublimato.


“Beato te che ti fai cittadino”. La famiglia saluta Ghigo alle porte del cimitero. “Non vado in America, Firenze è qui dietro”. Sono pochi i chilometri che separano “La viaccia” dalla città e non ha ancora capito la vera dimensione del trasloco (“Rinchiuso tra quattro pareti, mi mancherà l’aria”). Da quel momento, lo svolgersi degli eventi a cavallo tra quelli che, in effetti, sono due universi paralleli magnifica ancor di più la ricostruzione degli ambienti, segnata da un prezioso studio pittorico delle inquadrature e illuminata dal bianco e nero di Leonida Barboni, che nello stesso anno firmerà un’altra lezione di fotografia, Divorzio all’italiana.
Così, nuotiamo nel lirismo della campagna fiorentina e tra le stanze bianche ed essenziali de “La viaccia”, per poi lasciarci travolgere dalla suggestiva eleganza della Firenze fin de siècle, sia negli interni -le botteghe stracolme, i mestieranti indaffarati, l’ammagliante decadentismo del bordello-, che negli esterni, brulicanti di vita commerciale e sociale: Piazza del Carmine sotto la pioggia, dove avviene il primo scambio di sguardi, il mercato di Piazza Santo Spirito, i lungarni per i quali girovaga Ghigo, Dante senza Beatrice scappato dal pennello preraffaellita che Henry Holiday intingeva nella Vita nuova del Sommo poeta.


Ed è esattamente ciò che il giovane -straniero nel vecchio mondo, incapace di trovare riposo nel nuovo- cerca: una vita nuova, anzi, la sua vera vita. “Io non sono come voi, non sono della vostra razza. Ho l’aspetto dei Casamonti, ma dentro sono di vetro”. Belmondo, reduce de La ciociara (Vittorio De Sica, 1960), disegna un Ghigo che si trascina tra bottega, bordello e podere come una creatura confusa e irresistibile, fatta di ostinata purezza, nell’occhio dell’uragano della trasformazione antropologica agli albori del Novecento: una società protocapitalista, dove il denaro e le idee borghesi diventano tarli nelle travi di (apparenti) assoluti culturali.
“Qui non c’è nulla di veramente scritto”. Il patriarca agonizza e i fratelli discutono sul da farsi. “Come se ci fosse, no?”, chiede Stefano (stupendo Pietro Germi, secco, tellurico, fetta ambulante della sua terra), nominato unico erede universale. Il rifiuto della volontà paterna è il primo capovolgimento di un ordine naturale considerato immutabile, che ci collega con Luigi Pirandello e le Novelle per un anno (messe su pellicola con maestria dai fratelli Taviani in Kaos nel 1986): è la modernità che si incista nella tradizione. “La volontà del babbo è una fantasima, non ha fondamento legale”, assicura Nando. Una legalità estranea fino a poco tempo prima.


Anche Ghigo rifiuta l’autorità patriarcale: “Non ce l’ho questo vostro malanno, voi che guardate la terra come se fosse la luce degli occhi, ma per tutto il resto siete cieco”. Lo fa, però, in nome della propria dignità e libertà, non per perpetuare l’esistenza contadina operando un semplice cambio di padrone. Una sfida che comincia dal suo archetipo di mascolinità -ne La giornata balorda (1960), Bolognini aveva già dimostrato di essere impermeabile ai tabù-, soffocante ed eterea, priva di forza bruta, disdegnato da un padre disposto a tutto pur di non perdere “La viaccia”: “Per un tumulo di terra, rendereste schiavo il mondo”.
Il disprezzo di Stefano verso la modernità non risparmia l’esplosivo fermento politico di fine Ottocento, rifiutandosi persino di dare un passaggio al maestro anarchico -era il nome che mancava- Dante (Romolo Valli): “Un brigante senza voglia di lavorare, gente che dove passa semina bombe”. Per esigenze della trasposizione filmica, la questione viene soltanto abbozzata -niente a che vedere con lo sviluppo che troverà, ad esempio, in Metello (1970)-, ma mediante pennellate avvincenti e, anche se Ghigo non si mostra indifferente alle nuove fedi politiche, la sua natura lo rende inadatto a qualsiasi disciplina di partito o a una vita nella clandestinità.


La sua battaglia si svolge, bensì, nella Bianca di Claudia Cardinale. Come molti dei personaggi femminili che attraversano la produzione di Bolognini (la stessa attrice sarà l’indimenticabile partigiana Libera, amore mio nel 1970), ha operato una ribellione personale contro un mondo brutale che adesso rischia di schiacciarla: la coetanea Carmelinda (Gabriella Pallotta) è rimasta intrappolata ne “La viaccia” (“Che vuoi che faccia? Filare, figliare e udir berciare”); Bianca, tra le pareti del sontuoso bordello: “Nella vita contano soltanto i quattrini, il cuore non so cosa sia, siamo bestie! Hai soldi? Allora comprami”.
Ghigo, che aborre la guerra di interessi innescata all’interno della famiglia per una manciata miserabile di soldi, dovrà fare i conti con la nevrosi della modernità “alla Petri” che si fa largo in quel miracolo di delicatezza e cinismo, di magia e crudeltà, chiamato Bianca (“Ci sono sempre nel mondo quelle strade dove ci si può andare tenendosi per la mano?”). E l’esplosione del nuovo paradigma socioculturale che mercifica i rapporti, brutalizza corpi e menti, compra rispettabilità e gerarchie, lo scaraventerà in un abisso tra la luce e l’ombra di gramsciana memoria. “Io voglio solo essere libero. Volersi un po’ bene non conta?”.


La viaccia
Un film di Mauro Bolognini, 1961. Italia – Francia, Titanus – Arco Film – Galatea Film – SGC – STE Cinématographique Lyre. 106′, b/n.
Soggetto: liberamente tratto da L’eredità di Mario Pratesi. Sceneggiatura: Masimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile, Vasco Pratolini. Interpreti: Ada Passeri, Claudia Cardinale, Claudio Biava, Dolly Sampieri, Emilia Moghetti, Emma Baron, Franco Balducci, Gabriella Pallotta, Gianna Giachetti, Gina Sammarco, Giuseppe Tosi, Jean-Paul Belmondo, Marcella Valeri, Maria Grazia Balvetti, Nando Angelini, Olimpia Cavalli, Paola Pitagora, Paul Frankeur, Pietro Germi, Romolo Valli, Rosita Di Vera Cruz. Fotografia: Leonida Barboni. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Flavio Mogherini. Musiche: Claude Debussy, Piero Piccioni.
“Siamo bollate, bollate come le vacche!”: