Che La proprietà non è più un furto sia il più debole dei quattro film girati da Elio Petri tra il 1970 e il 1976 sembra ormai scontato. Una debolezza che, però, va contestualizzata per cogliere il reale significato di un’opera brillante e perturbante, profetica e imprescindibile.
Flavio Bucci ne La proprietà non è più un furto. Elio Petri, 1973.

La proprietà non è più un furto chiuse nel 1973 la “trilogia della nevrosi” di Elio Petri, dopo i pressoché perfetti Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in Paradiso (1971). Potere, lavoro e denaro: in quest’ordine i film analizzano i pilastri della società borghese post boom economico, un trittico che diventò polittico con l’arrivo di Todo Modo nel 1976, libero adattamento del racconto di Leonardo Sciascia, la cui lucidità provocò che destra e sinistra facessero definitivamente cadere la lama della ghigliottina sul collo di un intellettuale slegato da qualsiasi cordata ideologica.

Maestro nello scarificare la società dei consumi e tirarne fuori la menzogna, già nel 1959, in veste di sceneggiatore e aiuto regista di Gianni Puccini, aveva rivestito l’irresistibile L’impiegato di bombe ad orologeria che preconizzavano il baratro del capitalismo selvaggio. Contro questo sistema si ribella Total (tanto di cappello e di cranio per Flavio Bucci): impiegato di banca allergico al denaro contante e nevrotico tra i nevrotici -erede del commissario e il Lulù Massa di Gian Maria Volontè-, dopo essersi licenziato, sceglie come bersaglio della sua crociata un ricco e rozzo macellaio (Ugo Tognazzi), per deprivarlo di tutto ciò che ha acquisito irregolarmente. Vale a dire, di tutto.

Ugo Tognazzi ne La proprietà non è più un furto. Elio Petri, 1973.

Ma che ci farò io con tutto il denaro che accumulo, dal momento che sono in grado, da molto tempo, di provvedere a tutti i bisogni della mia vita? Lo utilizzerò per farne altro, altro ancora. Milioni, miliardi, perché il mio bisogno fondamentale è quello di arricchire. Quando penso ai cassieri di banca, che rischiano di morire per difendere il capitale altrui, oppure al fattorino del tram, che ogni sera, immancabilmente, consegna l’incasso della giornata, o a quei morti di fame che accettano passivamente la loro disgrazia nel rispetto della legge in difesa della proprietà. Ho proprio il sospetto che in questi nullatenenti avanzi la pazzia, alleggi la stronzaggine. Ciò mi tranquillizza perché è su di loro che io arricchisco.

La proprietà non è più un furto beve dalle due fontane che dissetarono il secondo tempo della carriera del regista romano: all’influenza di Franz Kafka, onnipresente dalla stupenda opera prima L’assassino, aggiunge il potere catartico del “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud e l’alito di Bertolt Brecht, sfociando in un’estremizzazione espressionista del linguaggio cinematografico. A scandire gli sviluppi della storia sono proprio delle finestre nere, palcoscenici brechtiani dai quali gli attori sfondano la quarta parete, recitando dei monologhi lucidi, scarnati, destabilizzanti (superbo quello del brigadiere Pirelli / Orazio Orlando). Petri ne era ben consapevole:

Nell’ultimo periodo della mia vita, ho fatto film sgradevoli in una società che ormai chiede la gradevolezza a tutto, persino all’impegno: se l’impegno è gradevole e quindi non dà fastidio a nessuno, lo si accetta. Altrimenti, no. I miei film, al contrario, oltrepassano addirittura il segno della sgradevolezza.

Daria Nicolodi e Ugo Tognazzi ne La proprietà non è più un furto. Elio Petri, 1973.

Scritta a quattro mani con Ugo Pirro, siamo davanti a un’opera tutt’altro che facile. È intenzionalmente grottesca (compreso l’improponibile accento romano di un Ugo, poche novità, irraggiungibile) e, a tratti, persino volgare. La scarsità di campi lunghi e l’ipnotica fotografia di Luigi Kuveiller creano un’atmosfera asfissiante che sfiora spesso l’apocalittico; inoltre, il forte valore allegorico di molte scene, unito ad alcuni passaggi troppo didascalici, come l’elogio funebre pronunciato da Paco (per il resto, un gigantesco Gigi Proietti), provocano, nella seconda parte, delle cadute di ritmo che stonano come macchie sull’immacolato spartito filmico di Petri.

Risulta, però, affascinante pensare che si tratti di sbavature forse imprescindibili per capire l’essenza di questa lama affondata senza pietà nel ventre di una società in balia del decennio che evidenziò la scarsa tenuta del suo tessuto sociale e istituzionale, con una brutale recessione già sull’uscio della porta mentre si svolgevano le riprese. Il tutto, condito dallo smarrimento personale del regista, travolto da un periodo di furore politico che lo portò ad un allontanamento della sinistra ufficiale, mentre il PCI si faceva a pezzi, come la carne del macellaio sulla bilancia rigorosamente truccata (con buona pace di Elena Fabrizi in un cammeo strepitoso).

Salvo Randone ne La proprietà non è più un furto. Elio Petri, 1973.

Perseguitore e perseguitato appartengono allo stesso ceto sociale: non è l’odio di classe, bensì l’invidia, ad aprire le danze della fine del sogno del benessere. E qui gioca un ruolo fondamentale la maschera ambigua interpretata da uno straordinario Mario Scaccia: Albertone, ladro e trasformista, professionista in entrambi i casi. “Schiavi e padroni facciamo parte dello stesso giro, i soldi”, diceva il Militina di Salvo Randone ne La classe operaia va in Paradiso, adesso nei panni del padre di Total, ex impiegato di banca apparentemente integerrimo, “noi diventiamo matti perché ce ne abbiamo pochi; loro, perché ce ne hanno troppi. E il cervello a poco a poco se ne scappa”.

Tutto si compra, si vende, si ruba. Una trinità simbolizzata nel crescendo di furti che arriva fino ad Anita (Daria Nicolodi), amante del macellaio, trattata alla stregua di coltelli, cappelli, gioielli: “Io appartengo alla macelleria, m’ha preso dalla vetrina”. Total sa che “l’egoismo è il sentimento fondamentale della religione della proprietà”, e la sua chiesa, la banca: “Sacrilegio!”, urla il direttore (Julien Guiomar), quando il giovane “marxista mandrakista” brucia una banconota. Una corsa disperata per estirpare la radice di tutti i mali. Disperata e inutile: “La proprietà più che un furto è una malattia. Essere o avere?”.

Flavio Bucci ne La proprietà non è più un furto. Elio Petri, 1973.

Nella dialettica tra essere e avere, il denaro si erge trionfante come il Deus ex machina del credo capitalista. “Non sei ladro, non sei onesto, ma chi sei?”. Total è l’incarnazione del disagio e del malessere in una società nella quale non troverà mai pace. “Io vorrei essere e avere, ma so che è impossibile. È questa la malattia”. I suoi intenti per ridurre in miseria il macellaio si rivelano una dissidenza controllata che finisce per perfezionare un sistema sociale, politico ed economico nel quale tutti hanno bisogno di tutti. “Nessuno è mai finito in miseria pe’ i furti, scemo”, gli sputa in faccia Albertone, “che vuoi? Lassa perde’: se vuoi ruba’, ruba pe’ diventa’ ricco, come tutti”.

Non c’è verso: anche quando ci sono delle piccole manchevolezze, Petri è sempre epico, visionario, disturbante. Il migliore (no, non è un luogo comune) dei registi politici, che non per caso venne sradicato dall’immaginario collettivo del cinema italiano per più di vent’anni. La sua opera, e La proprietà non è più un furto ne è esempio lampante, mostra una rara consapevolezza nel modo di intendere il mestiere, in cui la professionalità si identifica con l’etica: uno sguardo ribelle contro le regole ipocrite e gli equilibri imposti con la forza, dalla parte del popolo “in tutti i sensi, quindi anche dal punto di vista politico, soprattutto dal punto di vista umano”.

Ugo Tognazzi e Flavio Bucci ne La proprietà non è più un furto. Elio Petri. 1973.

La proprietà non è più un furto

Un film di Elio Petri, 1973. Italia – Francia, Quasars Film Company – Labrador Film. 126′, colore.

Soggetto e sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro. Interpreti: Daria Nicolodi, Flavio Bucci, Gigi Proietti, Julien Guiomar, Mario Scaccia, Orazio Orlando, Salvo Randone, Ugo Tognazzi. Fotografia: Luigi Kuveiller. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Scenografia: Gianni Polidori. Musiche: Ennio Morricone.

Una riflessione attorno al capolavoro maledetto di Elio Petri:

TODO MODO PER CERCARE LA VOLONTÀ DI CHI?