—
“Signor capitano, dia una lezione a quello sporco capitalista agrario!”. Ottobre 1922. Uno squadrone di camicie nere si è radunato in una villa nei pressi della Capitale. Tra di loro, Umberto (Ugo Tognazzi) e Domenico (Vittorio Gassman), che vogliono offrire “a sua Eccellenza” l’automobile confiscata a un decrepito latifondista (“Ci siamo scontrati col nemico: ahó, cinque erano e li abbiamo messi tutti in fuga disordinata”).
Il risultato è, però, ben diverso da quanto sperato: da Paolinelli (Roger Hanin) ricevono pochi complimenti e molte frustate, poiché il marchese, ridotto dai due camerati a rottame, come la sua macchina, è un collaboratore fascista. Umberto tira fuori un foglio e cancella l’ennesimo punto –“Abolizione di tutti i titoli di casta e nobiliari”– di un programma di Piazza San Sepolcro che è carta bagnata prima di arrivare a Roma.

Il tempo dei mostri
Sono passati quasi quattro dall’adunata milanese che vide la nascita dei “fasci italiani di combattimento”, momento che segna l’inizio de La marcia su Roma; è la primavera del 1919, “un’era di benessere, ordine e lavoro per tutti. Beh, proprio per tutti forse no”. Difatti, l’arruolamento dei due ex commilitoni nelle file dei fasci è la mossa disperata di due figli d’Italia in cerca del riscatto morale e materiale negato dal proprio Paese.
Sì, la levo, la levo [la medaglia], ma quattro anni di guerra, di cui tre al fronte, me li son fatti e, se ero lavativo come dice lei, a quest’ora mica c’avevo i bucchi nei guanti e le scarpe in queste condizioni; a quest’ora stavo come tanti puzzoni che dico io, che ci hanno sacrificati e che adesso se ne fottono, mangiano, bevono, capriolette di qua, sigari di là, alla faccia di chi tutto ha dato alla patria.
Poco compromesso, molta fame, troppe amarezze condivise dai reduci lasciati in preda alla crisi del dopoguerra, che trovano sotto l’ombrello del fascismo la promessa di una rivoluzione proletaria e contadina in grado di attenuare il senso storico della loro sconfitta. La risposta di Paolinelli non si fa attendere: “Lo so, lo so, ma adesso alcuni uomini, veri italiani, veri patrioti, si sono uniti in un movimento nazionale per dire basta a questa vergogna!”.
In questo melting pot ideologico (memorabile la scena in cui i protagonisti si accusano a vicenda di essere “bolscevico”), è Cristoforo (Giampiero Albertini) -cognato del “baciapile” Umberto e, come socialista, bersaglio prediletto della prima violenza squadrista- a dare il via al loro pellegrinaggio, cacciandoli di casa. “Dai, cammina, con l’avvenire che c’hai con noi e ti fai umiliare da questo…”. Ma nel loro avvenire si fa subito sera.

La marcia su Italia
Dopo i deludenti risultati elettorali, scendono in piazza e, come sostituti degli “spazzini sovversivi in sciopero”, vengono condannati a un anno e otto mesi di reclusione. Quasi due anni di isolamento, convinti che il partito fascista si sia “dissanguato”. Fino alla fatidica adunata del 24 ottobre del 1922, prova generale della Marcia su Roma che spiana definitivamente la strada del potere a Benito Mussolini.
“Non vogliamo piatti di lenticchie: o ci consegnano il governo, o ce lo andiamo a prendere con la forza”. Una forza brutale che punta già contro tutto lo spettro socio-politico e include l’occupazione di centri di comunicazione e uffici pubblici, compreso il carcere. Da allora, alcuni spiriti alla Dickens squarciano davanti agli occhi di Umberto e Domenico il velo del fascismo. Quello del passato è il magistrato che li aveva condannati (Howard Rubiens).
E, manganello e olio di ricino in mano, finiscono per essere loro le vittime di una purga di dignità.
Oggi trovereste maggiore indulgenza da parte di molti giudici, ma io non sono cambiato: io vi farei condannare oggi esattamente come vi fece condannare allora. Siete degli irresponsabili, ma non è tutta colpa vostra. Quando il fanatismo prende il posto della ragione, la strada è piena di inganni e l’inganno maggiore è proprio questo: che uno crede di amare la propria patria soltanto se questa patria è un Paese dove tutti la pensano allo stesso suo modo. Ed è così che finisce per amare una patria di schiavi e non si accorge di essere uno schiavo egli stesso.
Scatta così una graduale presa di coscienza, a suon di tradimenti di tutte le promesse del sansepolcrismo: alla non abolizione dei titoli di casta si aggiungono la non libertà di stampa (“Se loro hanno libertà di stampa, noi abbiamo libertà di bruciare”), la non terra ai contadini, le non libere elezioni (“Siccome di voti ne abbiamo preso troppo pochi, adesso la sovranità ce la beccamo a modo nostro”).
E questo non è che la punta dell’iceberg. Una discesa negli inferi di un movimento che, se nei primi momenti sembrava poco più di una buffonata (basti ricordare la gloriosa scena del comizio vuoto: “Sor capitano, vado a risponne io?”), rivela, attraverso un ferroviere / spirito del presente brutalmente ucciso mentre tentava di difendersi dai soprusi, il suo vero e unico volto: la morte.

Così come eravamo, così come saremo?
La marcia su Roma uscì in sala nel 1962, posizionandosi genialmente nell’incrocio tra due vie da poco sgomberate: quella de La grande guerra di Mario Monicelli, grazie alla quale la commedia era entrata a pieno titolo in terreni riservati alla “alta produzione”, e quella de Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini, che fece cadere il tabù cinematografico sul fascismo, la guerra e la resistenza vigente dai primi anni 50.
Dalla paura di una “rivoluzione socialista”, che si estese a macchia d’olio nel ceto medio, alla passività criminale del potere di fronte alla violenza squadrista, Dino Risi si unisce alla riapertura dei conti con la Storia collettiva e lo fa affiancato da Ettore Scola e Ruggero Maccari (nonché da Age e Scarpelli), ripetendo lo schema che essi avevano adottato in un altro J’accuse brillante delle miserie del fascismo, Gli anni ruggenti.
“Sono sempre venuto dietro alle tue balle, però adesso, con questo programma di fesserie, sai cosa ne faccio?”. Umberto e Domenico credono di essere sfuggiti all’incubo fascista, ma è ormai troppo tardi; mescolati tra la folla, guardano l’arrivo di Mussolini a Roma. E la cinepresa sale verso l’alto e inquadra Vittorio Emanuele III: “Mi sembrano gente seria. Proviamoli per qualche mese”.
Un attimo: e lo spirito del futuro? Umberto cerca di esorcizzarlo: “Quella gente così mica può stare al governo, le cose cambieranno, vedrai”. Per tutta risposta, Domenico gli indica di fare il “saluto romano”; forse in quel momento non ne è assolutamente consapevole, ma ha già capito (troppo) bene la natura delle camicie nere. “È per questo che a me il fascismo mi va bene!”, avevano detto una volta, “Sì, perché anche un fesso si sente forte”.
La marcia su Roma
Un film di Dino Risi, 1962. Italia, Fair Film – Orsay Film. 94′, b/n.
Soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli, Ettore Scola, Ghigo De Chiara, Ruggero Maccari, Sandro Continenza. Interpreti: Antonio Cannas, Gérard Landry, Giampiero Albertini, Howard Rubiens, Liù Bosisio, Mario Brega, Roger Hanin, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman. Fotografia: Alfio Contini. Montaggio: Alberto Gallitti. Scenografia: Ugo Pericoli. Musiche: Marcello Giombini.
“Ci siamo ribellati troppo tardi per pretendere di avere le mani pulite”: