È difficile parlare di Klaus Kinski senza cadere nell’agiografia, ma qualsiasi tentativo di sminuire il fatto che sia stato uno dei fenomeni più affascinanti mai conosciuti dal cinema rasenterebbe l’eresia. Prodigio alchemico dallo sguardo umanamente proibitivo che, come Ingmar Bergman disse di sé stesso, viveva nel suo pianeta e ogni tanto faceva una visita alla realtà, Klaus Günter Karl Nakszynski tracciò sul grande schermo un solco senza eredi. Quarant’anni di attività artistica, inoltre, intimamente legata al nostro Paese, dove girò una cinquantina di film: in Italia la sua carriera cominciò a prendere il sopravvento -tra i primissimi ruoli, un’apparizione non accreditata ne La paura di Roberto Rossellini (1954)- e in Italia ne scrisse l’ultimo atto, Kinski Paganini (1989).

Klaus Kinski e il cinema italiano (I): il western.

I western italiani erano i più veri, i più crudi, i più belli.

Un decennio dopo il travestito rosselliniano e quasi contemporaneamente alla feroce lucidità di Amurskij nel Dottor Živago (David Lean, 1965), Klaus aprì sfondò la porta del western -la categoria più folta: 21 film- con il primo ruolo italiano “vero”: Wild, fuorilegge della cricca dell’Indio Volontè in Per qualche dollaro in più. Gobbo espressionista seduto a un incrocio sporco e luminoso tra Conrad Veidt e Dwight Frye, le poche parole e la presenza scenica mesmeriana di questo paziente scappato dal gabinetto del dottor Leone piazzano i suoi tête-à-tête con il colonnello Mortimer (Lee Van Cleef) tra i passaggi più iconici della “trilogia del dollaro”. Un’impresa suicida, come l’assalto alla banca di El Paso. Un’impresa perfetta, come l’assalto, ecc.

Klaus Kinski in Per un pugno di dollari. Sergio Leone, 1965.

“Il Selvaggio” spianò la strada a “el Santo” di Quién sabe? (1966), “non western”, come sottolineava Damiano Damiani, bensì “film politico ambientato nella Rivoluzione messicana”. Frate francescano allucinato quanto basta, intento a espandere la teologia della liberazione a suon di bombe, incarna, assieme al fratello Chuncho di (ancora; chi, se non lui) Gian Maria Volontè, la metafora della rivoluzione come bastione ultimo di purezza selvaggia e radicale umanità. Un j’accuse contro l’imperialismo statunitense e l’ingerenza nell’America Latina che non soltanto preannuncia il western sessantottino e “terzomondista”, ma forma anche un dittico ideologico ideale con un’altra carica di profondità targata Kinski: Il grande silenzio.

Prima di mettersi davanti alla gloriosa cinepresa di Sergio Corbucci, si concesse, però, una pausa di gelosie, tradimenti e passioni: L’uomo, l’orgoglio, la vendetta (Luigi Bazzoni, 1966), ovvero la Carmen di Prosper Mérimée va nel West, anche se più dal punto di vista estetico che argomentale. La storia comincia nuotando con raffinatezza nelle acque del dramma romantico del gendarme spagnolo José, divenuto fuorilegge per amore dell’ammaliante zingara (buona prova attoriale di Franco Nero e Tina Aumont), e decolla in modo definitivo con l’entrata in scena di Kinski / García, capo della banda di briganti alla quale si unisce la coppia, che dà un perfetto ridimensionamento violento a un film meritevole di maggiore riconoscimento.

Klaus Kinski in Quién sabe? Damiano Damiani, 1966.

L’amour fou “cedete lo passo” al 1968 in fiamme. A febbraio sbarcò in sala Ognuno per sé: nella sua unica incursione nel genere, Giorgio Capitani porta nei domini del western hollywoodiano una geografia dell’avidità umana scritta e sceneggiata da Fernando Di Leo, il cui tocco si rivela nella caratterizzazione estrema dei personaggi, esplosiva in Brent “il Biondo”, uomo di chiesa mefistofelico, infilatosi in una troupe di fortuna (George Hilton, Sam Heflin, Gilbert Roland) costretta a unire le forze per ripulire una miniera abbandonata. Una tragedia greca pensata per Lucio Fulci, a metà strada tra Il tesoro della Sierra Madre e Sfida nell’Alta Sierra, con sfumature omoerotiche, edipiche e (forse) sovrannaturali. Un gioiellino.

E, a novembre, Il grande silenzio. Nella poco trafficata strada del western invernale, Corbucci firma un’opera d’arte dove l’attore polacco giganteggia (non è un verbo scelto a caso) nei panni di Tigrero, cacciatore di taglie nello Utah della grande bufera del 1899. Questione di ordinaria amministrazione: dove ogni frontiera fisica e morale scompare, Kinski ci porta a spasso per i sentieri più oscuri dell’anima umana (memorabili sia l’asse del male “scrupolosamente a norma di legge” con Luigi Pistilli che gli scontri con Jean-Louis Trintignant e Frank Wolff) con magnetica nonchalance. Una sfida etica ed estetica ai canoni del genere e contro un capitalismo darwiniano capace di distruggere persino la fine del mondo. Un capolavoro.

Klaus Kinski ne L’uomo, l’orgoglio, la vendetta. Luigi Bazzoni, 1966.

Gli anni ’60 finirono in bellezza per Klaus, prendendo parte nei primi due episodi della serie Sartana. Sempre nel 1968, lo sbancabotteghino … Se incontri Sartana, prega per la tua morte, probabilmente la migliore opera di Gianfranco Parolini, con un’apparizione breve, ma ferale: il pistolero Morgan, protagonista di un fumettistico -ecco l’avvincente cifra stilistica del film- duello con Sartana (Gianni Garko, unico legittimo proprietario del personaggio) in un mare di casse da morto. E, già nel 1969, Sono Sartana, il vostro becchino, diretto da Giuliano Carnimeo. Il duetto diventa triade di lusso (Garko, Kinski, Wolff) per raccontare una nuova avventura dell’eroe, accusato di rapina e con una sostanziosa taglia sulla testa.

Una stupenda rilettura gialla dei canoni del western all’italiana, violenta e ironica al punto giusto, che lo vede dare vita a Hot Dead, bounty killer posseduto dal demone del giuoco; un ruolo inconsuetamente tenero, con tanto di delizioso “triello” tra lui, Sartana e delle preistoriche slot machine. Molto più ambiguo è, invece, Dingus in Due volte Giuda (Nando Cicero, 1969), carta fondamentale perché il giovane Luke Barrett (Antonio Sabàto) possa scoprire la verità sul suo passato: venature noir e critica sociale (il colono che mangia la terra mentre Dingus minaccia di calpestragli la testa ne sa qualcosa) per un’altra interessante commistione di generi che permise a Klaus di chiudere in grande stile un decennio cinematografico straordinario.

Klaus Kinski in Ognuno per sé. Giorgio Capitani, 1968.

Con l’avvento degli anni ’70, il genere cominciò a dare segni di cedimento. Le mentalità e le dinamiche sociali stavano cambiando, mentre una nuova stagione all’italiana -poliziesca, questa volta- reclamava il suo spazio con furore. Prima della disintegrazione, però, il vecchio West sparò ancora qualche bel colpo. Tra il 1970 e il 1975, Klaus partecipò a ben tredici produzioni, non di rado riuscendo a risollevare le sorti di prodotti discreti in maniera taumaturgica. Ne è esempio La belva (Mario Costa, 1970): dove tutto -sceneggiatura, scenografia, interpretazioni- è, nella migliore delle ipotesi, improbabile, soltanto il suo ruolo cucito su misura (Johnny Laster, pistolero senza scrupoli, ossessionato dai soldi e pazzoide maniaco sessuale) evita un naufragio totale.

C’è poco da fare: la capacità del nostro di risucchiare l’anima dello spettatore è infallibile. O quasi, e fu Black Killer (1971) ad avere l’onore, si fa per dire, di dimostrarlo. L’attraente -sulla carta- personaggio di Kinski (James Webb, misterioso avvocato chiamato a indagare sui crimini commessi da una banda di fratelli fuorilegge) affoga in un calderone delirante che mescola scene violente e ridicolamente comiche senza misura, dialoghi parodistici, un montaggio fatto con gli occhi bendati (altrimenti non si spiega), trucco, scenografia e prestazioni attoriali da recita scolastica… La seconda e ultima fatica dietro la cinepresa di Carlo Croccolo (nome d’arte: Lucky Moore) è inenarrabile e, proprio per questo, va vista almeno una volta. Forse.

Klaus Kinski ne Il grande silenzio. Sergio Corbucci, 1968.

Un’altra atmosfera horror -qui, per fortuna, voluta- la troviamo in E Dio disse a Caino (1970), storia canonica (Gary Hamiton, ex ufficiale nordista in cerca di vendetta dopo aver passato dieci anni in carcere da innocente) tempestata di campane che rintoccano a morto, candelabri, organi, cimiteri e drappi mossi dal vento. Antonio Margheriti combina i topoi dello spaghetti western con quelli del “suo” orrore gotico e, audaces fortuna iuvat, il risultato è una perla rara del genere, segnata da una mirabile fotografia notturna, una curata scenografia e non pochi virtuosismi tecnici, dal duello nella tormenta ai giochi di specchi; il tutto, al servizio di un Klaus protagonista assoluto, nonché “il buono”, misurato e affascinante, che recita con ogni parte del corpo.

E, ribaltando il proverbio, siccome le buone notizie non vengono mai sole, a continuazione arrivò Prega il morto e ammazza il vivo (Giuseppe Vari, 1971), dove impersona Dan Hogan, capo di una banda di delinquenti costretto a fidarsi di uno sconosciuto per mettere in salvo un bottino da 100000 dollari. Tra le palesi fonti d’ispirazione di Quentin Tarantino per The Hateful Eight (2015), la sua costruzione narrativa -prima, i banditi asserragliati in una stazione di posta, sulla scia de La foresta pietrificata (Archie Mayo, 1936); poi, la traversata del deserto fino al confine con il Messico- e il conseguente crescendo di tensione psicologica fanno di Kinski una mappa vivente della follia umana. Quando il basso costo diventa un’arte.

Klaus Kinski in Sono Sartana, il vostro becchino. Giuliano Carnimeo, 1969.

Esperto di budget ridotti fu anche Miles Deem, responsabile di Per una bara piena di dollari e Giù la testa, hombre! (1971). Vale a dire, Demofilo Fidani allo stato puro, accompagnato dai suoi fedelissimi, in due storie di vendetta prevedibili, ma godibili (numerose le idee scopiazzate dall’universo “leoniano”), con sovrabbondanza di sparatorie e gli stessi punti di forza: la fotografia luminosa di Joe D’Amato e la presenza di Kinski, rispettivamente l’iracondo bandito Hogan e il reverendo Cotten, uomo dalla fede ferrea e dal cazzotto leggero. Un programma doppio che mostrò il cammino ai titoli che mancavano all’appello: narrazioni ricche di stereotipi, senza grandi infamie né particolari lodi, nelle quali Klaus, sprecato in ruoli secondari, fa film a sé.

In breve rassegna: Lo chiamavano King… (Giancarlo Romitelli, 1971), il revisionista La vendetta è un piatto che si serve freddo (Pasquale Squitieri, 1971), molto ben circondato da Leonard Mann e Ivan Rassimov, Il venditore di morte (Lorenzo Gicca Palli, 1971), piacevole western giudiziario della coppia Garko-Kinski penalizzato da alcuni siparietti comici fuori tempo massimo, la storia di redenzione Il ritorno di Clint il solitario (Alfonso Balcázar, 1972) e gli ibridi tra spaghetti, arti marziali e splatter patrio Il mio nome è Shangai Joe (Mario Caiano, 1973) e Che botte, ragazzi! (Il ritorno di Shangai Joe, Bitto Albertini, 1975), con una notevole galleria di psicopatici -Klaus, signore e padrone, ça va sans dire– e alcuni occhi cavati di (futura) tarantiniana memoria.

Klaus Kinski in Prega il morto e ammazza il vivo. Giuseppe Vari, 1971.

Per scrivere il suo testamento nel genere, Kinski si mise di nuovo agli ordini di Damiani: Un genio, due compari, un pollo (1975), commedia di ambientazione western girata per sfruttare il successo de Il mio nome è Nessuno (Tonino Valerii, 1973), custodisce il superlativo duello tra il giocatore d’azzardo Doc Foster e il truffatore Joe Thanks (Terence Hill) che, sulle note di Ennio Morricone, fece calare il sipario di una stagione indimenticabile, spingendo, al tempo stesso, il nostro demone biondo verso i cancelli di uno dei più affascinanti e conturbanti sodalizi del Novecento cinematografico: quello con un tale Werner Herzog. Sì, Klaus aveva ragione in tutto: i western italiani erano i più veri, i più crudi, i più belli. E lo furono anche grazie a lui.

Klaus Kinski e il cinema italiano (II): l’orrore.

KLAUS KINSKI E IL CINEMA ITALIANO (II): L’ORRORE