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Eravamo fuori Mosca a girare le prime scene. Avevamo dato ad alcuni soldati russi che dovevano fare le comparse le uniformi italiane. Si avvicinò un colonnello russo e ci disse che i suoi uomini non avrebbero girato perché il giorno prima già alcuni di loro si erano congelati e ci chiese, sorpreso, se davvero gli italiani durante la guerra avevano utilizzato quelle divise.
— Raffaele Pisu.


Correvano gli ultimi giorni del 1963 quando una folta troupe cinematografica salì su un treno a Roma Termini per andare nei luoghi dove si erano svolti gli avvenimenti principali della campagna italiana di Russia. L’obiettivo era di ricreare la storia di alcuni di quegli uomini mandati al macello a migliaia di chilometri da casa, a 37 gradi sottozero e con le scarpe di cartone, dal loro arrivo in terre sovietiche in appoggio alle forze tedesche, nel luglio del 1941, fino alla seconda battaglia difensiva del Don, nel Natale del 1942.
Bessarabia, fronte del fiume Bug, Odessa, Dniepropetrovsk e fronte del fiume Don, il più noto della criminale avventura voluta da Benito Mussolini e pianificata (si fa per dire) dallo Stato maggiore del Regio esercito. Ci riuscirono nell’impresa, eccome, con Giuseppe De Santis dietro la cinepresa, e l’intitolarono Italiani, brava gente (1964): prima coproduzione italo-sovietica, riassume in 143 minuti di metraggio l’essenza di quell’anno e mezzo di esperienza bellica estrema sul fronte orientale della Seconda guerra mondiale.
Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don (…). Nessuno pensava: “se muoio”; ma tutti sentivano un’angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: “quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa?”.
— Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve.


Non un film di guerra, ma sulla guerra, Italiani, brava gente si incastra come un’opera di rara bellezza nel filone resistenziale del “secondo tempo” del neorealismo aperto da Il generale Della Rovere (Roberto Rossellini, 1959) e La Grande guerra (Mario Monicelli, 1959). De Santis, che dal suo esordio aveva imparato e fatto propri gli insegnamenti del cinema sovietico, tesse con ritmo, maestria tecnica e mirabile fedeltà un arazzo epico con i fili delle storie personali dei soldati, gettati in un abisso nella fine del mondo “che non so come si scrive il nome”.
Qui la vita pende dalle labbra dei protagonisti e sgombra il cammino a morsi feroci. Perché, sebbene l’inclinazione letteraria sia una costante nell’universo De Santis, in quest’occasione la troviamo alla radice stessa del racconto: il regista dà un giro di vite alla tecnica del “narratore postumo” e compone un mosaico con le voci di diversi soldati morti (o dal destino incerto, nella migliore delle ipotesi), accostandosi così non tanto a William Faulkner o Billy Wilder, quanto alla meravigliosa Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Se nella raccolta poetica sono gli epitaffi a demitizzare la realtà di un paesino dell’America profonda, in Italiani, brava gente le lettere, i diari e i pensieri dei protagonisti scandiscono la storia, tracciando la loro evoluzione psicologica e morale: prima, l’incertezza e la speranza del ritorno a casa, infervorati dalla propaganda sulla “guerra lampo” (“Sarà una passeggiata fino a Mosca”); dopo, l’implacabile presa di coscienza: “Non fu come dicevano, che tutto sarebbe finito per l’estate. E prima era novembre, e mo s’è fatto dicembre…”.


“… E anche noi abbiamo cominciato a fare la guerra sul serio”. Voci che rappresentano tutti i tipi regionali, tutte le parlate, schiacciate dallo stesso mostro cieco. Sono lo stagnaro romano Libero Gabrielli (Raffaele Pisu, che ripete felicemente il meccanismo dell’attore comico inserito nel dramma, come aveva fatto Monicelli), il sergente siciliano Manfredonia (Nino Vingelli), il tipografo toscano Collodi (Gino Pernice), il contadino romagnolo Loris (Lev Prygunov), il tenente medico napoletano Mario Salvioni (Peter Falk, doppiato da Carlo Croccolo).
E sono, soprattutto, il colonnello Sermonti, anche lui romano (Andrea Checchi) e il muratore pugliese Giuseppe Sanna (Riccardo Cucciolla), due -non lo ripeteremo mai abbastanza- dei più grandi debiti storici del cinema italiano. A conferma del fiuto di De Santis per il cast, Checchi e Cucciolla diventano i principali responsabili della bellezza struggente della narrazione e l’incarnazione dello spirito di un superbo esercizio filmico che vuole ribadire che bandiere, trincee, gradi e persino classi sociali sono soltanto una linea Maginot tra gli esseri umani.
“Ho combattuto, ho ucciso come tanti altri, ma sempre dentro al cuore mi sentivo di morire”, confessa Sanna a Gabrielli mentre, sfiniti, trovano rifugio in un’isba, “mo basta! Non mi piace di uccidere tanti cristiani che non ti hanno fatto niente”. E risulta impossibile non trovare un filo rosso tra questa ribellione e quella dell’altro miracolo di umanità dell’attore barese: Nicola Sacco, che gli valse il Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes nel 1971: “La guerra non mi sta bene, quale diritto teniamo noi di ammazzarci uno contro l’altro?”.


All’inizio del film, una voce riecheggia nel treno che, carico di soldati, avanza tra i campi di cereali: “Siamo venuti a far la guerra nella Bassa Padana? Abbiamo fatto 10000 chilometri per vedere il grano?”. E poi ancora Sanna, in una lettera a sua moglie: “Oggi la Russia mi pareva la piana di Cerignola, quel pezzo di terra dietro la casa nostra, con tutti quei girasoli”. Sì, Italiani, brava gente è un canto all’internazionalismo operaio e contadino, che ferve nei rapporti tra i soldati italiani delle diverse regioni e in quelli con i partigiani e la popolazione civile russa.
Ma è, innanzitutto, un canto alla dignità umana senza toni assolutori né eroismo retorico. “Il film diceva delle verità e perciò non fu accettato bene”, ricordava Pisu in occasione del restauro realizzato dalla Cineteca nazionale nel 2018: 18 scene erano state tagliate perché “diffamatorie delle forze armate”. Una dignità che pulsa come un cuore nello scontro tra Sermonti e il maggiore Ferro Maria Ferri (Arthur Kennedy), al comando dei “superarditi” intenti a rapinare i contadini, e nelle decisioni prese dal colonnello in mezzo all’inferno del Don.
Nemmeno lì, abbandonati da tutti -dai tedeschi, annientati a Stalingrado, dallo Stato maggiore, persino da Dio- mise da parte l’orgoglio e la decenza. “Questo non è più un fronte, è un gioco di birilli”. È difficile calcolare il numero di vittime italiane durante la campagna di Russia. Basti un dato del massacro che assestò un colpo profondo alla fiducia di molti compatrioti nel fascismo: soltanto nella seconda battaglia difensiva del Don e nella rotta finale, fino al 31 gennaio del 1943, furono circa centomila i morti e i dispersi.


“Il mio unico maestro fu Peppe”, diceva Elio Petri, e Italiani, brava gente spazza via ogni dubbio. De Santis è stato il miglior regista corale del dopoguerra e una delle voci più straordinarie del nostro cinema, spesso affogata dai “mostri sacri” coetanei. Lui pagò il conto di molte colpe del neorealismo, ma i suoi cosiddetti “eccessi ideologici” altri non erano che una difesa radicale dell’essere umano: pochi come loro, maestro e discepolo, capirono fino in fondo la potenzialità del cinema come veicolo di comprensione del passato e trasformazione del presente.
Quando Sanna aggredisce il tedesco che non gli lascia condividere il pane con un prigioniero russo, viene rimproverato da Sermonti (“Il pane era il mio, non era di Hitler, nemmanco di Mussolini. / A disgraziato, ma lo sai in che situazione mi hai messo? A capocciate lo potevi ammazza’!”). Ma pochi giorni dopo, sul fiume Bug, è il colonnello a scontrarsi pesantemente con i tedeschi, in difesa dei suoi uomini e del suo Paese. E quel muratore comunista, “Topone”, piccolino e testardo, seduto in trincea, sorride e lo guarda con fierezza. E pensa:
Hai avuto ragione a trattarmi così, signor colonnello. Allora, però, tu mi devi spiegare perché quel giorno, proprio quel giorno che il nostro reggimento si trovò davanti ai russi per la prima volta, tu hai fatto una cosa che io avevo rischiato la prigione, ma a te ti potevano fucilare. Io ti ho parlato una volta sola, signor colonnello, e non so nemmanco se sei uscito vivo o morto da quest’inferno. Però ti volevo far sapere che mi sarebbe piaciuto assaje essere amico tuo, senza più gradi, senza più la guerra.
Forse perché una vita non basta. E sicuramente perché “la brava gente si somiglia dappertutto” (Primo Levi).
Italiani, brava gente
Un film di Giuseppe De Santis, 1964. Italia – Unione Sovietica, Mosfilm – Galatea. 143′, b/n.
Soggetto: Ennio De Concini, Giuseppe De Santis. Sceneggiatura: Augusto Frassinetti, Ennio De Concini, Gian Domenico Giagni, Giuseppe De Santis, Serghei Smirnov. Interpreti: Andrea Checchi, Arthur Kennedy, Gianna Prokhorenko, Gino Pernice, Grigori Mikhailov, Lev Prygunov, Nino Vingelli, Peter Falk, Raffaele Pisu, Riccardo Cucciolla, Tatiana Samoilova. Fotografia: Toni Secchi. Montaggio: Claudia Moskvina, Mario Serandrei. Scenografia: Ermanno Manco. Musiche: Armando Trovajoli.
Dichiarazioni tratte da: intervista a Raffaele Pisu (Cinecittà News, 2018), Elio Petri. Appunti su un autore (Federico Bacci, Nicola Guarnieri, Stefano Leone, 2005), La chiave a stella (Primo Levi, 1978), Il sergente nella neve (Mario Rigoni Stern, 1953).
“Ieri come oggi, vedere come eravamo per sapere ancora che siamo a questo punto”: